lunedì 16 febbraio 2015

CENTENARIO DELLA GRANDE GUERRA CONTRIBUTO DELL'ARTISTA LUCIO TARZARIOL - DISEGNI GIOVANILI INEDITI - LA GUERRA NELLA REGIONE VENETO E FRIULI VENEZIA GIULIA

Questi sono disegni inediti dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo, quando da piccolo si mise a ricostruire pittoricamente le storie di guerra del nonno Giuseppe Tarzariol, della Grande Guerra  1915 - 1918. Storie che il padre Antonio Tarzariol orgogliosamente raccontava e che nel piccolo Lucio fecero presa tanto da provare a ricostruirne i fatti, tra trincee, battaglie, fame e fortuna che riportò a casa il giovane soldato Giuseppe Tarzariol allora attendente del capitano Farina nelle frange del generale Luigi Cadorna presso San Daniele e Caporetto.

Cartolina raffigurante il soldato Giuseppe Tarzariol.








Medaglia al merito al soldato Giuseppe Tarzariol firmata di pugno da Benito Mussolini


Disegno dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo
Caporetto, ka battaglia di trincea, una pallottola dei soldati avversari attraversa il tacco della scarpa del soldato Tarzariol Giuseppe che rimane fortunatamente illeso.
Disegno dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo 
Caporetto, dell'intero battaglione rimangono vivi solo tre soldati, il capitano Farina, il suo attendente Giuseppe Tarzariol ed un altro soldato. Lasciarono le firme su una pietra a Redipuglia Trieste.
Disegno dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo
Il soldato Tarzariol Giuseppe perde il suo portafortuna in battaglia, prima di andarsene dal campo sicuro di ritrovarlo, inciampa e cade a terra vedendo il suo San. Antonio in custodia davanti al suo naso.
Disegno dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo
Il soldato Tarzariol Giuseppe trasferito prigioniero in Germania su un vagone ferroviario assieme ad un cavallo selvatico. Il soldato Tarzariol doma il cavalo  con i pugni, che subito impara a rispettarlo.
Disegno dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo
Il soldato Giuseppe Tarzariol prigioniero in Germania costretto a nutrirsi di scorze di patate, ma la fortuna vuole che un giorno trovi una pagnotta di pane.

Disegno dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo
Il soldato Giuseppe Tarzariol ritorna dalla guerra e da Vittorio Veneto ritorna a Casa a piedi, i suoi amici volevano accompagnarlo, ma Giuseppe Tarzariol rifiuta dicendo che deve ritrovare alcuni amici.  Felici e ubriachi con l'auto i giovani soldati si allontanano e per un amaro destino, sebbene sopravvissuti alla guerra, muoiono in un brutto incidente stradale. Tarzariol ha ancora salva la vita per miracolo.

Disegno dell'Artista Lucio Tarzariol da Castello Roganzuolo
Ritratto del soldato Giuseppe Tarzariol





ORA CERCHIAMO DI CAPIRE QUELLA GUERRA E QUEI SOLDATI MANDATI AL MACELLO
Mio nonno aveva un capitano che gli voleva bene e cercava di dargli i consigli giusti, questo mi fa sapere mio padre, ma quanti sono morti dando la vita senza avere un minimo di rispetto?
                                                                                                                      Tarzariol Lucio         

"Ora si persegue le crudeltà del generale Luigi Cadorna, ma chi farà Luce su quei politici che permisero e approvarono certi comportamenti? Chi dirà la verità sugli intoccabili che con paraventi e virtuosismi nascosero e nascondono sempre la crudeltà umana"

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Periodicamente saltano fuori articoli come questo, e chi si occupa di storia si chiede (o almeno, speriamo si chieda) dove abbia sbagliato. Perché qualche sbaglio ci dev’essere stato, se oggi su un quotidiano nazionale si può raffazzonare un pezzo del genere. Lasciando stare i refusi prettamente storici (l’altopiano dove si lanciarono “specialmente” attacchi frontali fu il Carso e non Asiago, per dire) saltano agli occhi due questioni: l’immarcescibile adagio del “grandi soldati, piccoli generali”, che perpetua un topos tutto italiano e che dispensa dall’interrogarsi seriamente sul rapporto tra gli italiani e la guerra; e la sicumera dell’autore nell’affermare come non ci sia «battaglia piccola o grande che non sia stata studiata in tutti i dettagli», salvo poi citare come unica fonte del proprio articolo il libro di Lussu, certamente importante ma datato anno domini 1937.
Detto questo non siamo certo gli avvocati d’ufficio di Luigi Cadorna, anzi. Tuttavia, come in altri passaggi della storia italiana, anche nella Grande Guerra restano lacune storiografiche e questioni solo marginalmente indagate. E cambiare i nomi alle vie o alle piazze ci sembra uno dei tanti comodi espedienti messi in atto dagli italiani per non fare i conti con la propria storia, piuttosto che il contrario.
Da: La Stampa, 10/06/2011 (tit. or.: Il Gen. Cadorna non ha diritto a vie e piazze, di Ferdinando Camon
Luigi Cadorna
Luigi Cadorna
Gli abitanti di Udine protestano: non vogliono più avere un piazzale dedicato al generale Luigi Cadorna. La commissione per la toponomastica è d’accordo, la giunta ha votato, è deciso: via il nome di Cadorna dal piazzale che sta davanti all’ex caserma dei Vigili del Fuoco. Si chiamerà Piazzale Unità d’Italia. E’ una tardiva, irrimandabile correzione della storia. Il generale che fu il comandante supremo dell’esercito nella prima guerra mondiale, fino a che non fu sostituito da Armando Diaz, aveva a Udine la sede del comando. Finita la guerra, con una grande vittoria (ma lui era già stato sostituito) era inevitabile che gli onori e la gloria che dovevano piovergli addosso partissero da questa città, come dire da casa sua.
Ma da allora è stato un continuo scavo degli studiosi nella sua strategia, la sua tecnica d’attacco, gli assalti a ripetizione, lungo tutto il fronte e specialmente sul vicino Altopiano d’Asiago, dove esercito italiano ed esercito austriaco si fronteggiavano da pochi metri di distanza, con una successione ininterrotta di battaglie e valanghe di morti. Sono stati eventi grandiosi, perciò inobliabili. Da quella grandezza discendeva una gloria, che ricopriva anzitutto il generalissimo. Ma era una gloria funerea, ogni nostro attacco si trasformava in un suicidio collettivo. I diari e le testimonianze di quelle giornate terribili provano che i nostri soldati davano continue prove di eroismo, e i comandanti d’impreparazione. “Grandi soldati, piccoli generali”. In tutte le città del Veneto e del Friuli, ma soprattutto sull’Altopiano, è un continuo fiorire di libri sulla prima guerra mondiale, ogni anno ne escono 3-4, non c’è battaglia piccola o grande che non sia stata studiata in tutti i dettagli. C’era un tale disprezzo per la vita dei soldati negli ordini di Cadorna, che i soldati sentivano anche i propri comandi come nemici da cui difendersi. Il pilastro delle testimonianze sul disprezzo per la vita dei soldati sta nel libro di Emilio Lussu Un anno sull’Altipiano. Fondamentale la scena in cui un maggiore, da solo, processa e condanna a morte e fucila, uno ad uno, i propri soldati, usciti senza ordini da una caverna su cui cadeva per errore il fuoco amico della nostra artiglieria. Il maggiore viene a sua volta ucciso da un ufficiale subalterno. C’è un passo, in un libro scritta da Cadorna, in cui il generalissimo sostiene l’efficacia degli attacchi frontali a ripetizione, con la tesi che “prima o poi il nemico si stanca e spara alto”. Un comandante così non merita l’onore di piazze e strade, ma la corte marziale. Nella follia di quegli ordini s’intravede il concetto che i soldati che vanno all’assalto moriranno, sì, ma questo sacrificio collettivo fortifica l’esercito, la monarchia e lo Stato. E’ l’idea del popolo come strame della storia. Cancellando il nome di Cadorna da una piazza, la città di Udine non è più disposta a ritenere che l’Italia sia stata fatta dai comandanti con il materiale inerte del popolo, ma dal popolo nonostante l’inadeguatezza militare ed etica dei comandi. In quel modo non si creava uno Stato per un popolo, ma un Regno per un re. E’ giusto prenderne coscienza. Ogni città che ha vie o piazze intitolate a Cadorna dovrebbe pensarci. Poiché queste vie e piazze sono tante, la decisione di Udine può mettere in moto una frana. Una benefica, salutare frana.

Novant’anni fa la Battaglia di Caporetto - Ottobre 1917 
Un’occasione per riflettere


di: Tullio Vidulich, Generale B. (ris.)
Panorama dell'Isonzo a CaporettoLa 12a Battaglia dell’Isonzo, passata alla storia con il nome di Battaglia di Caporetto, è legata strettamente con l’11a Battaglia dell’Isonzo, più nota con il nome di Battaglia della Bainsizza (17 agosto – 13 settembre 1917) e con la crisi dell’ “Intesa” del 1917 che ebbe il suo inizio in Francia con i contrasti fra Governo e Comando Supremo, con il fallimento dell’offensiva “Nivelle” e per l’accentuarsi dello sfacelo della Russia.
Proprio in conseguenza del cedimento della Russia il 26 luglio del 1917, durante la “Conferenza Interalleata di Parigi”, gli alleati chiesero all’Italia di effettuare una ulteriore offensiva allo scopo di impegnare sulla fronte italiana le maggiori forze austriache possibili per dare la possibilità alla Russia di riorganizzare il proprio esercito. Sulla base di quanto concordato alla conferenza di Parigi con gli alleati, il generale Cadornaorganizzava la 11a Battaglia dell’Isonzo con l’obiettivo l’Altopiano di Comen e Trieste per la 3a Armata e l’Altopiano della Bainsizza – Selva di Tarnova per la 2a Armata. L’offensiva iniziò il 17 agosto e si concluse il 13 settembre.
Con la Battaglia della Bainsizza l’esercito italiano, attraverso estenuanti e sanguinosi attacchi, riuscì a penetrare in territorio nemico per una profondità sino ad allora mai realizzata in tutte le dieci battaglie sull’Isonzo e, nel medesimo tempo, era riuscito a logorare fortemente l’esercito austro-ungarico in condizioni tali, che non avrebbe potuto sostenere un’altra offensiva di analoga intensità. La vittoria conseguita costò un caro prezzo al nostro esercito: 166.000 uomini di cui 40.000 fra morti e dispersi, perdite che provocarono sensibili sintomi di stanchezza e sfiducia nei combattenti.
Negli altri Paesi si è tenuto sempre a minimizzare se non a dimenticare le sconfitte subite mentre gli italiani, per un deplorevole spirito di autolesionismo che dura da 90 anni, quasi si compiacciono di ricordare quel tragico evento.
L’Austria per eliminare la grave situazione venutasi a creare sul fronte dell’Isonzo e per risolvere gravi difficoltà di ordine interno decise di sviluppare una energica operazione offensiva con l’appoggio di unità germaniche per conseguire un radicale mutamento della situazione. L’8 settembre venne firmato un accordo tra i Comandi Supremi austro-ungarico e germanico per sanzionare la decisione di condurre una operazione offensiva sul fronte dell’Isonzo. Il momento prescelto era molto favorevole per condurre un’offensiva contro l’Italia in quanto l’esercito russo era in pieno sfacelo e, sul fronte occidentale, dopo il fallimento dell’offensiva Nivelle, l’esercito francese era da tempo sulla difensiva.
Il generale Otto von BelowAlle ore 2 del 24 ottobre 1917 la 14a Armata austro-tedesca (costituita da 8 divisioni austriache e 7 tedesche), agli ordini dell’abile generale tedesco Otto von Below, lanciava una potente offensiva (denominata “Waffentreue” – “Fedeltà d’Armi”) contro le linee italiane in corrispondenza delle conche di Plezzo e Tolmino, considerate dal generale Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore dell’armata mista, leposizioni più deboli dello schieramento avversario in quel settore del fronte isontino, con l’obiettivo di raggiungere il fiume Tagliamento. Alla destra della 14a Armata operava la 10a Armata austro - ungarica mentre a sud della 14a Armata, sul basso Isonzo, agiva il Gruppo d’Esercito del generale Boroevic. L’azione sferrata connuovi procedimenti tattici sconosciuti all’esercito italiano (breve e terrificante preparazione di artiglieria nelle retrovie, lancio di granate con gas tossici sulle posizioni di Plezzo e Tolmino e infiltrazioni di reparti scelti nei fondi valle alle spalle dei reparti italiani) nel giro di poche ore apriva una consistente breccia in corrispondenza di Tolmino ad opera della 12a Divisione slesiana e della divisione Alpenkorps che risalendo la valle dell’Isonzo con grande rapidità giunsero alle spalle delle linee del IV Corpo d’Armata, in coincidenza di Caporetto, determinando il ripiegamento disordinato della 2a Armata del generale Capello. Nella giornata del 25 ottobre le falle aperte in corrispondenza di Plezzo, Caporetto e Tolmino si allargarono sempre di più, al punto che divenne impossibile arrestare il nemico. Il giorno 26 i tedeschi conquistavano Monte Maggiore e si aprivano così le vie per Cividale e Udine. Il giorno 27 ottobre in seguito al precipitare degli eventi il generale Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’esercito, dava l’ordine di ripiegamento generale al fiume Tagliamento alla 2a e 3a Armata e alle truppe della Zona Carnia. Il 28 cadeva Udine e, dopo una disperata resistenza davanti ai ponti del fiume Tagliamento, le divisioni italiane proseguivano la ritirata sino al Piave. Durante quellaClicca per ingrandire la testa di ponte di Tolmino drammatica battaglia (passata alla storia come Battaglia di Caporetto) l’esercito italiano perse 300.000 uomini (prigionieri in gran parte della 2a Armata), 3500 pezzi di artiglieria, 1730 mortai e bombarde,2800 mitragliatrici e una ingente quantità di materiale.
Nei primi giorni dell’offensiva caddero 10.000 soldati e più di 30.000 furono i feriti. L’Esercito ebbe, inoltre, 350.000 sbandati che poi vennero raccolti e recuperati. La sera del 27 ottobre, dopo aver raggiunto Treviso, il generale Cadorna, emetteva il Bollettino di Guerra con il quale si imputava la sconfitta alla “mancata resistenza di reparti della 2a Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. Con quel disonorevole Bollettino il generaleCadorna addebitava alla truppa la responsabilità della rotta di Caporetto e non invece a manchevolezze ed errori del suo Comando.
Per fermare la massa degli sbandati della 2a Armata e regolare lo sgombro dei reparti il Comando Supremo dovette ricorrere a decisioni estreme: furono impiegati plotoni di esecuzione che eseguirono fucilazioni sommarie di soldati presi a caso fra gli sbandati in fuga.


UN EVENTO TRAGICO CHE LASCIO' SEGNI NDELEBILI
Il generale Pietro badoglioLa ritirata di Caporetto fu un evento tragico che lasciò segni indelebili sugli avvenimenti del nostro paese: soldati e popolazione civile delle province occupate pagarono un enorme tributo di sangue, di sofferenze e di distruzioni. Nel giro di poche ore la guerra travolse il destino di migliaia di soldati e di oltre un milione di civili delle province di Udine, Treviso, Belluno, Venezia, Vicenza mediante furiosi combattimenti innescati in ogni paese, nei casolari, lungo le strade, davanti ai ponti dei fiumi, accompagnati da saccheggi e violenze contro le popolazioni inermi compiute dall’invasore che si impossessava delle misere scorte alimentari dei contadini, depredava gli animali nelle stalle per poter cibarsi (molti reparti erano senza viveri) e sequestrava le opere d’arte nelle ville patrizie. Interessante leggere la viva testimonianza lasciataci da Cesco Tomaselli, capitano del Battaglione Alpini Belluno, nel suo libro “Gli ultimi di Caporetto”, dove descrive le dolorose vicende della ritirata. Durante quella fase di rottura del fronte le forti genti della La mappa di Caporetto (clicca per ingrandire)Carnia, del Cadore, del Friuli affrontarono l’imprevista situazione con grande dignità, sostenendo i nostri soldati che andavano incontro al baldanzoso nemico. Al rovescio militare contribuì anche il disfattismo che si era diffuso nei mesi precedenti fra il popolo e alcune unità combattenti fortemente provate dalle pesantissime perdite di vite umane e da alcuni gruppi massimalisti del Partito Socialista nonché dall’attività di alcuni partiti sovversivi incoraggiati dalla rivoluzione russa e dall’iniziativa del papa impegnato a promuovere iniziative di pace fra le nazioni belligeranti. Sulle montagne e davanti ai ponti del Tagliamento numerosi furono gli episodi eroici dei nostri soldati che si sacrificarono per consentire il ripiegamento del grosso delle armate italiane e per arginare le incalzanti avanguardie nemiche tese all’occupazione dei ponti stradali e ferroviari. Desidero ricordare gli atti di valore più significativi compiuti dai reparti di ogni arma e specialità durante quelle drammatiche giornate. Eroico fu il comportamento del Battaglione Alpini Val d’Adigenella difesa di Monte Ieza, e dei valorosi fanti della Brigata Potenza in difesa di Monte Maggiore e il generoso ed eroico impegno degli alpini e dei bersaglieri che sul Costone di Pleca per 36 ore fermarono l’avanzata di una Brigata austriaca da montagna. E ancora il giorno 28 ottobre il Reggimento “Saluzzo” combatté valorosamente a Beivars e a San Gottardo, il 29 iReggimenti Lancieri “Aosta” e “Mantova” fermarono le avanguardie nemiche a Fagagna, mentre gli Squadroni di “Roma” e “Monferrato” arrestarono gli austro-ungarici a Pasian Schiavonesco. Leggendaria l’eroica resistenza dei Reggimenti “Genova Cavalleria” e “Lancieri di Novara” agli ordini del generale Emo Capodilista e di reparti della Brigata “Bergamo” a Pozzuolo del Friuli che si sacrificarono per proteggere il ripiegamento della 3a Armata così come la generosa resistenza dei granatieri di Sardegna a Lestizza e laaccanita lotta della Brigata “Bologna” schierata sulle colline di Ragogna: per tre giorni resistette coraggiosamente agli assalti furibondi dei tedeschi che volevano conquistare il ponte di Pinzano. “Di molti di questi eroi immolatisi per la Patria” afferma Cesco Tomaselli, ufficiale degli alpini che visse sulla sua pelle la ritirata con il Battaglione Belluno “non si saprà il nome, non si conosceranno mai le gesta: segnalati ai comandi superiori con l’equivoco termine di dispersi, essi sono i più ignoti fra gli ignoti, perché nessuno è tornato di chi li vide cadere, nessuno può riscattare le loro memorie e solo la madre, che sa di averli educati alla legge del dovere, coltiva nel suo dolore l’orgoglio di pensarli non indegni di quella uniforme che essi onorarono cadendo”.
LE MANOVRE IN RITIRATA
Il Generale Armando DiazPer evitare la manovra di aggiramento avversaria, nella notte del 3 novembre anche la 4a Armata che difendeva il Cadore iniziò il ripiegamento con l’ordine di organizzare la difesa del Monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe dell’Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il fiume Piave. Nonostante il disastro subito l’esercito ed il paese ritrovarono la forza e la volontà di resistere e di combattere sul Piave con grande coraggio e alto senso di responsabilità. Il Piave divenne il fulcro e simbolo della volontà di riscossa di tutto il popolo italiano.
Il mattino del 9 novembre il Comando Supremo dell’esercito fu assunto dal generale Armando Diaz, al quale venivano affiancati, nelle vesti di sottocapo di stato maggiore, i generali Pietro Badoglio e Gaetano Giardino. Il generale Diaz subito si mise al lavoro per elevare l’efficienza dell’esercito ed il morale delle truppe che da poco avevano subito una rovinosa ritirata. Le cause della sconfitta italiana si debbono ricercare nel Comando Supremo che non riuscì ad individuare il momento, il punto di rottura prescelto e le nuove modalità tattiche dell’avversario.
Altri elementi contribuirono a facilitare il successo nemico il 24 ottobre: l’ampio uso dei proietti a gas , specie nella conca di Plezzo, il mancato intervento delle poderose artiglierie del XXVII Corpo d’Armata del generale Badoglio il quale si era riservato di impartire personalmente l’ordine di intervento dell’artiglieria (700 pezzi di medio e grosso calibro) ma che al momento di aprire il fuoco non fu in grado di impartire gli ordini a causa della distruzione di tutti i mezzi di comunicazione, la manovra di accerchiamento della 12a Divisione slesiana che a Caporetto piombò alle spalle del IV Corpo d’Armata provocando disordine e sfiducia e che aperse le vie verso la pianura. Altra causa fu l’infelice dislocazione e impiego della riserva del Comando Supremo e delle riserve di Armata in corrispondenza dello sfondamento, nonché l’atteggiamento controffensivo dei reparti della 2a Armata nonostante che il generale Cadorna il 18 settembre avesse emanato ordini per organizzare la difesa a oltranza delle posizioni.
La grave situazione richiese di adottare una nuova strategia. Fra governo e Comando Supremo si instaurò un dialogo di massima collaborazione determinato da una mentalità più moderna.
La sconfitta di Caporetto fu essenzialmente militare e generata dalla sorpresa in campo strategico del Comando Supremo. La sconfitta subita dagli italiani non fu certo più grave di altre sconfitte subite dai nostri alleati francesi, inglesi e russi e dai nostri avversari durante la Prima Guerra Mondiale. I nostri alleati ebbero disastri ben più gravi della ritirata di Caporetto; più gravi sia per perdita di territorio che per perdite di uomini e mezzi militari e civili (ricordo la Battaglia di Gorlice-Tarnow, nel maggio 1915, dove i russi fecero una ritirata di 380 chilometri, persero Varsavia e accusarono gravissime perdite di soldati e artiglierie; la disastrosa offensiva del generale Nivelle, nell’aprile del 1917, che fallì miseramente subendo 180.000 perdite fra morti e dispersi con ammutinamenti di intere divisioni; l’offensiva tedesca della Somme e delle Fiandre, nel marzo del 1918, che causò agli anglo – francesi la perdita di 330.000 soldati fra morti e dispersi e di 209.000 prigionieri e allo Chemin des Dames, nel maggio del 1918, dove i tedeschi sfondarono il fronte e nel giro di una settimana penetrarono in profondità per oltre 100 chilometri).
Il Generale Luigi CadornaMa negli altri paesi si è tenuto sempre a minimizzare se non a dimenticare le sconfitte subite mentre gli italiani, per un deplorevole spirito di autolesionismo che dura da 90 anni, quasi si compiacciono di ricordare quel tragico evento. La vittoria austro – tedesca dell’ottobre del 1917 rappresentò un grande successo tattico, ma si dimostrò un insuccesso strategico poiché quella battaglia non riuscì a eliminare l’esercito italiano che dopo quella sconfitta, insieme al popolo, sul Piave reagì vigorosamente per combattere l’ultima battaglia del Risorgimento. Caporetto fu una battaglia perduta: esattamente un anno dopo la paurosa notte di Caporetto, l’Italia a Vittorio Veneto, sconfiggeva definitivamente le armate austro – ungariche creando le premesse per la fine anticipata del lungo e sanguinoso conflitto mondiale.Il Generale Luigi Capello, comandante della 2a Armata a Caporetto
La grave situazione richiese di adottare una nuova strategia. Fra governo e Comando Supremo si instaurò un dialogo di massima collaborazione determinato da una mentalità più moderna. Vennero presi significativi provvedimenti a favore dei soldati per migliorarne le condizioni di vita: furono concessi turni di licenza più frequenti, migliorato il vitto, venne istituita una polizza assicurativa in caso di morte dei combattenti, venne data maggiore attenzione ai problemi morali e materiali del soldato e delle loro famiglie. Vennero elaborati nuovi procedimenti tattici rivolti ad eliminare gli errori che avevano provocato la ritirata di Caporetto e la perdita di tante vite umane. Dopo la ritirata al Piave l’esercito italiano venne a trovarsi schierato su una nuova linea difensiva di circa 200 chilometri più corta di quella precedente: rimasta immutata dal Passo dello Stelvio sino all’Altopiano di Asiago si saldava ai contrafforti del massiccio del Grappa per scendere sul Monfenera e distendersi poi lungo il corso del Piave sino al mare. Vista la gravità della situazione sul fronte italiano, Francia ed Inghilterra decisero l’invio di un corpo di spedizione in aiuto all’esercito italiano. Anche gli Stati Uniti d’America contribuirono al potenziamento dell’esercito italiano con l’invio di materiali di ogni genere. Ai primi di novembrequattro divisioni francesi raggiungevano Vicenza, la 46a e 47a di Cacciatori delle Alpi e la 64a e 65a del XXXI Corpo d’Armata. Nei giorni seguenti giunsero in Italia due divisioni inglesi, la 23a e 24a. Fra il 20 novembre ed il 2 dicembre vennero inviate nel Venetoaltre due divisioni francesi e quattro divisioni inglesi. Il nemico, imbaldanzito dal successo, non allentò la pressione e sull’Altopiano di Asiago esso attaccò furiosamente. Il 4 dicembre sferrò un formidabile assalto contro le difese della 29a Divisione; alpini, fanti e bersaglieri resistettero sino all’esaurimento ma poi dovettero ripiegare sulla linea Monte Val Bella - Val Franzela - Col del Rosso.Per tutto il mese di novembre e quello di dicembre le posizioni del Grappa furono sottoposte a martellanti bombardamenti e incessanti attacchi dai reparti del generale Krauss, ma gli italiani riuscirono a reggere il potentissimo urto con disperato eroismo e al prezzo di immensi sacrifici.
L’offensiva austro-tedesca aveva raggiunto il suo culmine, oltre non le era stato possibile avanzare in virtù della forza di volontà e delle tenacia dei soldati italiani.
Non occorre conoscere l’alta strategia per comprendere l’importanza che aveva il massiccio del Monte Grappa nella nuova linea difensiva Altopiano di Asiago-Monte Grappa - basso Piave. Esso rappresentava un caposaldo di saldatura fra la linea difensiva degli Altipiani e quella del Piave, un pilastro fondamentale per entrambi. Se il Grappa avesse ceduto, avrebbe trascinato nella sua caduta l’intero fronte degli Altipiani e del Piave.
Il Generale Austriaco KraussA difesa del Grappa venne inviata la 4a Armata con il XVIII Corpo d’Armata e la 17a Divisione del IX Corpo d’Armata rinforzata con la Brigata Como. Le forze sul terreno presero la seguente articolazione: - 51a Divisione sui costoni che strapiombano sulle valli del Cismón del Brenta (Monti Asolone, Col della Berretta, Col Caprile, alture fra il Monte Roncone e il Monte Prassolan); - 15a Divisione, al centro della difesa, sul Monte Grappa e sui costoni fiancheggianti la valle di Seren (posizioni avanzate del Monte Roncone, Monte Prassolan, Col dei Prai, Monte Pertica, Monte Costón, Col dell’Orso, Solarolo); - 56a Divisione, sul Monte Tomatico, Monte Peurna, Monte d’Avien, Monte Fontanasecca, Monte Spinoncia, Monte Pallone, posizioni del Boccaor; - 17a Divisione del IX Corpo d’Armata schierata sulle posizioni del Monte Tomba-Monfenera, con presidi avanzati a nord di Quero, sul Monte Tese-Rocca Cisa-Monte Cornella. Il Gruppo Krauss che aveva come obiettivo la conquista del Monte Grappa disponeva, inizialmente, di 4 divisioni: a destra in Val Brenta, agiva la Divisione Edelweiss (austro-ungarica); al centro, contro il Grappa, la 22a Kaiserschützen; a sinistra, in Val Piave, la 55a Divisione (Bosniaci e Carinziani); in riserva era la Divisione Cacciatori Germanici.
In seguito al gruppo iniziale si aggiunsero rinforzi del XX Corpo d’Armata e della 10a Armata. L’attacco iniziò il 13 novembre. Il Monte Pertica, posizione di importanza decisiva per arrivare alla Cima del Grappa, venne conteso senza tregua dall’uno e dall’altro, flagellato senza posa dal fuoco delle artiglierie, terribile spettro di sofferenze inaudite, di sangue e di morte. Per numerose volte la vetta fu perduta, riconquistata e poi perduta, ma nonostante l’esito sfavorevole agli italiani, le truppe del generale Krauss non riuscirono mai ad andare oltre. Sino al 21 dicembre si svilupparono numerosi violentissimi attacchi, appoggiati da un massiccio fuoco di artiglieria, ma l’avversario non riuscì mai a violare le posizioni di capitale importanza del Monte Grappa e del Piave. L’offensiva austro-tedesca aveva raggiunto il suo culmine, oltre non le era stato possibile avanzare in virtù della forza di volontà e delle tenacia dei soldati italiani.
Trincee sul Monte Grappa
Sul Monte Grappa i nostri fieri avversari si trovarono di fronte un nemico diverso da quello incontrato a Caporetto, un avversario che nel giro di pochi giorni aveva cambiato volto e spirito. La fine dell’anno si chiudeva con un brillante successo dei nostri alleati francesi sistemati a difesa delle pendici del Monte Grappa a fianco degli italiani. Il 30 dicembre tre Battaglioni francesi di Chasseur des Alpes della 47a Divisione riconquistavano la cima del Monte Tomba e la dorsale del Monfenera, perduta dagli italiani il 22 novembre, dopo una accanita resistenza. Dopo numerosi tentativi di sfondare le nostre linee sul M. Grappa, a fine dicembre le truppe tedesche lasciarono l’Italia per ritornare sul fronte occidentale. Col Caprile, Monte Pertica, Col della Berretta, Monte Asolone, Monte Fontanasecca, Monte Valderoa, Monte Solarolo, Col dell’Orso, Monte Spinoncia, Monte Tomba, Col Moschin sono cime ormai consacrate alla storia d’Italia.
Krafft von DellmensingenVale la pena di conoscere cosa in seguito scrisse il generale Krafft von Dellmensingen, prestigioso e cavalleresco capo di Stato Maggiore della 14a Armata, all’indomani della battaglia di Caporetto: “Così si arrestò, a poca distanza dal suo obiettivo, l’offensiva ricca di speranze, ed il Grappa diventò il “Monte Sacro” degli italiani. D’averlo conservato contro gli eroici sforzi delle migliori truppe dell’esercito austro-ungarico, e dei loro camerati tedeschi, essi, con ragione, possono andare superbi!”.
Dopo il successo riportato sul Grappa il generale Diaz si dedicò instancabilmente all’opera di ricostruzione dell’esercito mediante l’apprestamento di mezzi adeguati. Nel giro di pochi mesi vennero rimpiazzati tutti i materiali perduti nella ritirata: armi, munizioni, mitragliatrici, mortai, cannoni, automezzi, aeroplani e materiali sanitari. Le grandi unità vennero ringiovanite con la chiamata alla leva dei “ragazzi” della classe del ‘99, allora appena diciottenni e impiegati subito in prima linea a fianco dei soldati veterani per sbarrare la via all’invasore. Il loro apporto si dimostrò molto importante per la vittoria finale. Durante i mesi invernali, sulle trincee tormentate dai sanguinosi assalti e contrassalti, il generale inverno impose una tregua. Sosta che il Comando Supremo utilizzò per completare il consolidamento del fronte e che dai nostri temprati avversari venne sfruttata per preparare una nuova potente offensiva contro l’Italia.
Generale B. Tullio Vidulich






La militarizzazione dell'Anteguerra (1861 - 1915)
Negli anni precedenti alla Grande Guerra, l'intero corso del fiume Tagliamento venne potentemente fortificato dall'esercito italiano. Tale piazzaforte, che constava di circa quaranta siti corazzati lungo un' ampia area imperniata sul maggiore fiume friulano, era la conclusione del Progetto di Difesa dello Stato, il quale si proponeva offrire ai confini d'Italia una stabile "cerniera" difensiva.
I Forti del Friuli furono strutturati nel primo quindicennio del '900, tardivamente rispetto sia alle imperial - regie infrastrutture carinziane che ad altri settori dello scacchiere italiano: ciononostante, essi dovevano assolvere la delicata funzione strategica di chiusura della "Porta del Friuli", storico punto di contatto tra la Nazione latina e quelle continentali ma, soprattutto, direttrice d'attacco obbligata per la penetrazione d'entrambe le organizzazioni difensive.
Gli impianti in oggetto, tra cui si possono riconoscere diverse tipologie (dai pesanti forti veri e propri alle più labili batterie permanenti), erano pensati dai vertici militari del Regno d'Italia per opporsi alla prevista minaccia austro-ungherese. L'eventualità, a scapito della formale "Triplice Alleanza" siglata nel 1882 da Italia ed Imperi centrali, non era molto remota, date le mai sopite rivalità italo-asburgiche e le forti rivendicazioni irredentistiche d'ispirazione risorgimentale caratterizzanti il dibattito politico-sociale d'allora.
Il territorio compreso tra Cornino, Ragogna, San Daniele e Pinzano fu sin da subito individuato come nevralgico ai fini della fortificazione permanente. Il Monte di Ragogna, ergendosi isolato con i suoi 512 m di altitudine sulla sinistra del Tagliamento, ricopriva di per sé grande valenza tattica. Si aggiunga, in un'epoca in cui le uniche possibilità di guadare massicciamente i grandi corsi d'acqua erano affidate ai pochi ponti presenti e le vie di comunicazione terrestri assumevano capitale centralità strategica, la strutturazione della ferrovia Spilimbergo - Gemona e l'edificazione dei ponti di Pinzano (stradale), di Cornino (ferroviario) e successivamente di Pontaiba (militare), ed ecco che il settore divenne la chiave di volta del sistema "Medio Tagliamento".
Seguendo questo ragionamento, nel 1908 la Commissione Suprema per la Difesa dello Stato presieduta dal Capo di S.M. Gen. Saletta, statuì la messa in opera di un adeguato complesso fortificatorio presso Pinzano e sul Monte di Ragogna.
Nel 1909 si armarono le anime del vallo, ovvero le batterie permanenti "in barbetta" per quattro cannoni da 149mm cadauna, definite "Ragogna Bassa" e "Ragogna Alta" o "del Cavallino". Tali capisaldi, schierati rispettivamente alle estremità occidentali ed orientali del Monte di Ragogna, accolsero un totale di otto bocche da fuoco, ma erano potenzialmente strutturati per ospitarne altrettante.
Nell'anno 1911 vide invece la luce il campo trincerato, organizzato su tre linee, che ancora oggi solca le pendici del rilievo, dal Colle del Castello di San Pietro a Cimano. All'uopo del rifornimento per il sistema fortificato, si dischiusero delle ardite mulattiere di guerra lungo gl'accidentati pendii che guardano il Tagliamento. Numerosi camminamenti in profondità, nidi per mitragliatrici, "tane di volpe", ridotte e ricoveri andarono a perfezionare la piazzaforte.
Nei pressi di Pinzano, a Col Colàt (quota 280m), venne strutturato nel 1909 un importante fortilizio per quattro cannoni da 149 mm, provvisto di polveriere, "barbetta" e strada d'accesso. D'altro canto, si iniziarono i lavori di diverse rotabili (come l'ampliamento della Strada "Regina Margherita" in Val d'Arzino o l'ardita mulattiera del M. Cuar) che, se arrecavano notevoli utili alle popolazioni, dovevano soprattutto garantire una buona comunicabilità in un settore militarmente determinante.
Il ruolo giocato dalla Testa di ponte di Ragogna nell'anteguerra è stato anche rivelato dall'atteggiamento tenuto dagli Austro-ungarici negli anni precedenti il conflitto, i quali organizzarono un sofisticato sevizio di spionaggio teso a recuperare il maggior numero di dati inerenti al laboratorio difensivo italiano. Due furono i casi puntualmente documentati di azioni d'intelligence messe in opera dagli asburgici tra il 1913 ed il 1914, di cui l'ultimo terminò con la condanna dell'agente Vittorio M. da Venezia, arrestato dai Reali Carabinieri in atteggiamenti sospetti sul M. Ragogna.
I primi anni del conflitto e la Battaglia di Caporetto (1915 - 1917)
Con la dichiarazione di belligeranza presentata all'Impero Austro-ungarico dal Regno d'Italia (24 maggio 1915), il territorio friulano divenne "zona di guerra". Il fronte, sin dalle prime battute, si stabilì secondo una linea virtuale che dalla Alpi Carniche e Giulie scendeva il Fiume Isonzo, cingeva il Carso e sfociava nel Mar Adriatico presso Monfalcone. Di conseguenza, le fortificazioni permanenti friulane si ritrovarono ad essere tagliate fuori dalle operazioni, che si svolgevano ad una distanza maggiore rispetto al raggio d'azione delle proprie artiglierie.
La constatazione suggerì agli alti comandi di disarmare la Linea del Tagliamento nella quasi totalità, dirottando guarnigioni e armi al fronte, ove urgente era la necessità di mezzi e di uomini. I fortilizi di Ragogna e di Pinzano non vennero risparmiati dall'ordine di smobilitazione, e furono riutilizzati a guisa di basi logistiche.
Tuttavia, i primi anni di guerra videro fiorire numerose vie di comunicazioni finalizzate anche alla maggior potenzialità delle fortificazioni permanenti: tra il 1915 e l'estate 1917 furono, per esempio, costruite la passerella di Pontaiba, la strada dell'omonima Valle, la rotabile Cornino - Trasaghis, un notevole corpus di mulattiere tra le giogaie delle Prealpi Carniche. D'altro canto, la Città di San Daniele divenne un'importante snodo di retrovia, con casermaggi, "Casa del Soldato" e varie infrastrutture peculiarmente militari.
Nell'agosto 1917, il Capo di Stato Maggiore italiano Generale Cadorna, profetizzando ciò che sarebbe accaduto due mesi dopo, pensò di formare un imponente gruppo tattico di riserva presso la Testa di ponte di Ragogna. Ma, distratto dai colpi di coda dell'11^ Battaglia dell'Isonzo, abbandonò il progetto. Fu con lo sfondamento di Caporetto (24 ottobre 1917) e con la relativa, inarrestabile avanzata austro-germanica, che il fronte del Tagliamento venne frettolosamente munito. Il 30 ottobre '17 le avanguardie della 14^ Armata imperiale già superavano le difese di San Daniele, prendendo contatto con il perimetro esterno delle guarnigioni di Ragogna e di Cornino, minacciando l'aggiramento della 3^ Armata italiana a sud e della 4^ a nord - ovest. Tra il Ponte di Pinzano, il Monte di Ragogna ed il Ponte di Cornino si sarebbero giocati i destini della guerra.
La Battaglia di Ragogna e lo Sfondamento di Cornino (30 ottobre - 3 novembre 1917)
Tra il 30 di ottobre ed il 3 di novembre 1917, tra Pinzano, Ragogna e Forgaria si combatté uno dei fatti d'arme più importanti della ritirata: la Battaglia di Ragogna e lo Sfondamento di Cornino.
Conquistata la cittadina di San Daniele, il 30 ottobre ben quattro divisioni imperiali conversero sui ponti di Pinzano e Cornino, le cui difese risultavano imperniate sul Monte di Ragogna e sul "Clapàt".
La cresta di Ragogna era presidiata dalla Brigata "Bologna", da un battaglione della Brigata "Barletta", da pattuglie della Brigata "Lario" e di qualch'altra sparuta unità. Il Ponte di Cornino, con le alture di M. Prat e di M. Forchia, si presentavano guarnite dalla Brigata "Lombardia" e da circa 1000 uomini della "Siracusa" e della "Genova". Al presidio di Forgaria e di Flagogna ottemperava un reggimento della "Lario" ed alcune compagnie della "Barletta".
Tali compagini risultavano mobilitate nel controverso Corpo d'Armata Speciale che, agli ordini del Generale Di Giorgio, fu costituito tra il 26 ed il 27 ottobre allo scopo di mantenere il collegamento strategico tra il XII Corpo della Carnia e la 2^ Armata, garantendo la ritirata del "grosso". Invero, la Grande Unità "d'emergenza", distesa lungo il Medio Tagliamento tra Spilimbergo e Trasaghis, si trovava nella onerosa necessità di sopperire interamente alla funzione difensiva della oramai sfasciata ala sinistra della 2^ Armata.
Nonostante la palese inferiorità di uomini e mezzi (in alcuni punti gli Austro-germanici godevano di un rapporto favorevole pari a 12:1 sulle forze avversarie) e le congiunture sfavorevoli ai difensori, i quali combattevano in un clima moralmente deleterio ed in trincee molto approssimative, l'ordine dei comandi italiani era chiaro: "Resistere ad ogni costo!".
Le truppe delle divisioni austriache 55^, 50^ e della 12^ "Slesiana", dopo aver (50^ e 55^) vanamente attaccato il ponte di Cornino ben protetto dalle mitragliatrici piazzate sull'isolotto del Clapat e dalle poche artiglierie italiane schierate sulla destra del fiume, il 31 ottobre investirono il Monte di Ragogna, oltrepassando (la 12^ "Slesiana") San Giacomo e (la 50^ a.u.) Muris. Contemporaneamente, la 13^ Divisione germanica scatenava un furioso bombardamento di controbatteria sulle bocche da fuoco avversarie dislocate tra i rilievi di Pinzano, avvolgendo da sud ovest la testa di ponte difensiva; l'Alpenkorps germanico, nel quale si ritrovava il Tenente E. Rommel che transitò a Pontaiba il 3 novembre 1917 al seguito delle prime avanguardie, s'impegnava verso il ponte di Bonzicco e nell'area di Aonedis.
Più volte, gli assaltatori avevano risalito i pendii sovrastanti il paese di Muris ed il Rio del Ponte ma si ritrovarono costretti al ripiegamento dai furibondi ed inaspettati contrattacchi italiani.
Alle 03:00 del 1 novembre, i mitraglieri appostati sul Clapat si sganciarono sulla riva destra del Tagliamento in piena, danneggiando l'arcata occidentale del Ponte di Cornino. Però, la carenza e la scarsa qualità dell'esplosivo non permisero la totale distruzione dell'opera.
Contemporaneamente, anche la passerella di Pontaiba, ridotto passaggio sul Tagliamento ultimato dal Genio nel 1916, era stata seriamente compromessa: l'unica via di scampo per gli eroici fanti della Brigata "Bologna" si ravvisava nel Ponte di Pinzano.
Nella mattinata del 1 novembre, La 12^ Divisione, "quella di Tolmino", appoggiata da decine di batterie, sferrò l'attacco che voleva rivelarsi decisivo. Ma, pur giungendo a 300 m circa dal Ponte di Pinzano, l'impeto degli Slesiani venne respinto dalle Fiamme Nere dei Reparti d'Assalto e dagli uomini del 40° Reggimento di Fanteria.
In ogni caso, la gravità della situazione suggerì al Generale Sanna, comandante la 33^ Divisione e quindi l'intera fronte qui considerata, di ordinare la deflagrazione del Ponte di Pinzano. Udendo i combattimenti che divampavano tra le case di San Pietro, i genieri furono più che sollevati nel dar fuoco alle micce. Alcune fonti riportano come nella fragorosa esplosione rimanessero coinvolte le avanguardie tedesche che già stavano transitando sul ponte.
La distruzione dell'opera viaria di Pinzano, eseguita alle 11:45, precluse ogni possibilità di salvezza a coloro che stavano difendendo la trincea del M. Ragogna sulla sinistra Tagliamento: tuttavia, i fanti opposero una disperata resistenza sino al calar della sera, quando furono inesorabilmente sopraffatti.
Centinaia di soldati austro-germanici trovarono la morte, ben quattrocento cadaveri di militari italiani furono raccolti dai valligiani nei periodi successivi, poi in parte inumati nell'ora scomparso Cimitero di guerra di Ragogna (presso il Monumento ai Caduti di Ragogna, tuttora esiste una lapide eretta dal Dipartimento Cimiteriale germanico a ricordo di 37 Italiani per tragico errore bersagliati dal "fuoco amico"). I circa tremila sopravvissuti furono invece catturati dagli Austrogermanici. Sulla Piazza Vittorio Emanuele II di San Daniele, il condottiero supremo della 14 Armata imperiale, Generale Otto von Below, concesse ai guerrieri della "Bologna" ed al suo valoroso comandante Colonnello Carlo Rocca, l'Onore delle Armi. Anche la Relazione ufficiale austriaca, come tutte le fonti italiane, esalta "l'eroica difesa" sostenuta dalla fanteria sabauda tra il 30 ottobre ed il 1 novembre 1917.
Scardinato il M. Ragogna, il Principe di Schwarzenberg e i suoi Jager puntarono allo sfondamento del fronte a Cornino. In merito al nobile austriaco, grande figura storica e militare, si ricorda la rocambolesca scivolata e relativa "nuotata" nelle gelide acque del Tagliamento in piena; l'incidente, banale in tempo di guerra, poteva costargli la vita.
Tra il 1 ed i 2 novembre, con l'ausilio della spregiudicata azione delle artiglierie schierate in prima linea e sfruttando l'atteggiamento incerto dei quadri italiani, i Bosniaci del Maggiore Redl occuparono prima l'Isolotto del Clapat, quindi si slanciarono verso le sparute compagnie della Brigata Lombardia trincerate sulla riva destra del Tagliamento. Sopraffatta la pur pugnace resistenza dei fanti, nella notte sul 3 novembre gli Asburgici del "Gruppo Krauss" sbaragliarono la linea difensiva italiana, aggirando e liquidando buona parte della Brigata "Lombardia" (col. Puglioli), che con valore combatté nei pressi dei San Rocco e sull'altopiano del M. Prat. Fu infranto anche lo slancio delle poche unità appartenenti alle Brigate "Lario" e "Barletta", le quali avevano approntato un segmento trincerato tra Pontaiba, Flagogna e Forgaria.
L'azione difensiva sul Monte di Ragogna permise alle colonne del Regio Esercito di acquistare il tempo necessario per organizzare una ritirata efficace e completare la sistemazione difensiva sul fronte del Piave - Grappa - Altipiani, scalfendo l'imbattibilità degli attaccanti che dovettero impegnarsi non poco nelle reiterate offensive descritte; tuttavia, il successo fu ridimensionato dalla decisione del Generale Cadorna, il quale espressamente volle sacrificare una brigata efficiente ed utile come la "Bologna" sull'altare del riscatto morale post Caporetto, quando era ancora possibile il disimpegno.
Lo sfondamento imperiale a Cornino, denominato la "Seconda Caporetto", condannò all'accerchiamento le divisioni 36^ e 63^ intrappolate tra le Prealpi Carniche ed impresse agli eventi una velocità di manovra che poteva dimostrarsi perniciosa per il ripiegamento italiano.
In conclusione, furono i soldati d'Italia operanti tra Ragogna e Forgaria, ( circa 7.500 unità) che, reggendo l'urto di forze avversarie enormemente superiori per mezzi e numero (almeno 25.000 unità), offrirono al grosso del Regio Esercito l'intervallo temporale in ultima analisi dimostratosi indispensabile ai fini della riscossa del Piave.
Il progetto difensivo austro-ungarico (1917 - 1918)
Durante l'anno dell'occupazione imperiale (nov. 1917 - nov. 1918), pure l'Esercito austriaco organizzò un campo trincerato a difesa del Medio Tagliamento, settore che si sarebbe rivelato nevralgico qualora gli Italiani sfondassero la fronte del Piave.
La chiave di volta del sistema era l'insieme di fortificazioni strutturate sulle alte rive del Tagliamento, a sud di Villuzza (Ragogna), nel 1918 dai cadetti di una Scuola Tecnica del Genio. Il Comando del Corpo si trovava a Pignano, nella Villa Locatelli, non molto distante dalla locale infrastruttura militare dell'epoca.
Infine, quando il Regio Esercito sopraffece le armate austro-ungariche in seguito alla Battaglia di Vittorio Veneto (ott. - nov. 1918), la K.u.K. difesa permanente di Ragogna non oppose alcuna resistenza ai reparti italiani in avanzata.
Marco Pascoli