martedì 4 agosto 2015

I CASTELLI DI REVINE UN POMERIGGIO CON IL BIBLIOTECARIO PITTORE LUCIO TARZARIOL ECCO REVINE IMMAGINATO DAI RAGAZZI DELGRUPPO ESTIVO


28 AGOSTO  2015- I disegni dei ragazzi del Gruppo Estivo di Miriam Pizzol hanno immaginato l'antica Revine sotto l'egida dell'Impero Romano ai tempi di Cesare Augusto dopo la presentazione del libro "I Castelli di Revine"  da parte dell'autore Lucio Tarzariol che nell'occasione ha illustrato anche la sua opera  pittorica realizzata nel 2007.



Qui a fianco la copertina del Libro "I Castelli di Revine" di Lucio Tarzariol patrocinato dalla Regione Veneto, dal Comune di Revine Lago, dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane, dalla Banca di Credito Cooperativo delle Prealpi e realizzato con la collaborazione dell'archeologa Daniela Francesca Vian e Daniela Bernardi.

 Ecco i giovani artisti di Revine Lago: Beatrice Carpenè, Alberto Foda, Gabriele Sonego, Andrea Eva da Riva, Claudia Moz, Rachele Botteon, Penelope Baccichet, Tommaso Piol, Sofia Pilat, Damiano Sommavilla, Francesca Grava, Giulia Carpenè, Riccardo de Nardi, Della Bella Sara, Giulia De Nardi, Andrea Casagrande, Daniele Biz, Asia Zanco, LeonardoD'Alessandro, Riccardo Segat, Stefano Bernardi, Aurora de Nardi.







Testo tratto dal libro: I Castelli di Revine dell'Artista e ricercatore  Lucio Tarzariol realizzato nel 2007 con la collaborazione dell' archeologa Daniela Francesca Vian e Daniela Bernardi
Revine Lago è un comune di circa 2.119 abitanti, ha un’estensione di 18,70 kmq ed è situato ad un'altitudine di 247 m. a Nord della Provincia di Treviso, a ridosso delle prealpi trevigiane; il suo territorio è diviso in due fasce principali: il versante Sud delle prealpi e il fondovalle. La prima parte è costituita da un pendio molto ripido e quasi completamente ricoperto di boschi che parte dalle cime delle prealpi (Monte Cor, La Posa), situate ad una quota compresa tra i 1200-1300 m. circa, e arriva sino a fondovalle.
  Nella parte bassa, si trovano invece i laghi di Lago e Santa Maria, posti a quota di 224 m. s.l.m. e una modesta area pianeggiante; nel punto di unione fra le due zone si trovano la maggior parte degli insediamenti, spesso coincidenti con i numerosi conoidi derivati dall'erosione delle antistanti montagne. Fa parte del comune anche una modesta zona collinare posta a Sud-Est.
  Il comune ha due paesi principali: Revine e Lago. Revine è situata ad Est e si estende su tutta la superficie del conoide del torrente Grava (o Pavei), è sede arcipretale, possiede quattro chiese (San Matteo, San Francesco da Paola, San Marco e quella della Madonna della Neve), una biblioteca, una banca, tre bar e diversi negozi. Il centro storico, molto caratteristico, occupa tutta la parte alta del paese. Il patrono è San Matteo. Sempre nella parrocchia di Revine ci sono le località Selve a Sud-Est e Fornaci a Sud-Ovest, in quest'ultima si trova la zona industriale.
  Spostandoci verso Ovest troviamo la frazione di S. Maria appartenente alla parrocchia di Lago. Essendo posta a metà fra i due principali paesi è divenuta sede municipale e sede della scuola elementare. Lago si trova sulle sponde del lago omonimo, il patrono è San Giorgio. La zona nuova di questo paese si estende ad Est verso S. Maria e ad Ovest verso Sottocroda. Sempre verso Ovest c'è la zona industriale di Lago.


I due laghi di Santa Maria e di San Giorgio sono tutt'oggi un importante sito naturalistico che presenta aree palustri ed estese torbiere; sono divisi territorialmente tra i comuni di Revine Lago e Tarzo.  Rappresentano  ciò che rimane di un più vasto lago formato da uno dei rami del ghiacciaio Piave durante le varie fasi delle ultime glaciazioni.
  Buona parte dell'antico bacino, che si estendeva fino all'accumulo morenico presso Gai di Cison di Valmarino, si è interrato con depositi palustri o bonifiche avvenute già in epoca preistorica e romana. Infatti, questi laghi sono stati meta di genti fin dall'era tarda neolitica, ne sono prova i reperti di un villaggio palafitticolo rinvenuto lungo il canale che unisce i due laghi.
 Più ampiamente tutta la Valsana è stata un importante luogo di transito per i Romani, soprattutto nel VII secolo, come per l'appunto testimoniano le tracce dei castelli di Monte Frascon, Salt del Casin e Castegna Maor a Revine, che sorgevano nella loro magnificenza in un'antica via che attraverso il Pian delle Femene conduceva in Valbelluna. In zona non sono le sole, dato che molte altre testimonianze si trovano nei dintorni del Castello di Cison di Valmarino, lungo quell'antica strada militare che conduceva al Nord Europa e che è tradizionalmente chiamata la Claudia Augusta Altinate, basti pensare ai ruderi dell'insediamento fortificato sul Monte Castellazzo. Queste fortificazioni, di cui oggi rimangono solo i ruderi, ed anche i villaggi di fondovalle, grazie alle antiche vie romane, vennero devastati dalle invasioni barbariche.
  Due sono le aree attrezzate di interesse pubblico dei comuni di Revine Lago e Tarzo. A Colmaggiore di Tarzo vi è un parco chiamato: "Va dee femene”, varco tra i canneti dove un tempo le lavandaie si riunivano, ed ora luogo di ritrovo estivo per i paesani, da dove si può intraprendere una bella passeggiata lungo gli argini del lago fino all'istmo tra i due bacini dove si trovano i resti archeologici di un villaggio palafitticolo.
  A Revine Lago vi è il Livelet inaugurato a Maggio 2007; un parco archeologico didattico che sorge sulla sponda occidentale del lago di Lago, in prossimità dell’emissario artificiale La Tajada.
  La realizzazione del Livelet prende spunto dai ritrovamenti fatti nell’area circostante i laghi, sia nel 1923 sia nel 1987, quando vicino al canale Barche in Colmaggiore vennero riportati alla luce resti di palafitte risalenti al Neolitico.
  Per non compromettere il sito di Colmaggiore, uno dei più importanti del Veneto orientale, il parco è stato realizzato a Lago, provvedendo anche ad una parziale bonifica della vegetazione.
 L’area del Livelet  si compone di:
area di accoglienza
una struttura didattica al coperto
tre capanne, una su terraferma, una su bonifica e una sull’acqua sostenuta da un’impalcatura lignea
una struttura semi-coperta ad emiciclo destinata ai momenti di pausa
uno spazio riservato all’agricoltura per coltivazioni sperimentali
ampi spazi per le attività di laboratorio
 Su indicazione della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Monumentali della Regione Veneto, la ricostruzione del villaggio è stata realizzata soprattutto in legno, utilizzando legnami compatibili con il territorio e con i ritrovamenti archeologici, in modo di poter garantire una ricostruzione quanto più fedele alla realtà.


Altre informazioni su Revine Lago
Luoghi da visitare: Santuario di S. Francesco da Paola posto sopra l'abitato, ospita 35 opere di Mathias Cremsl, G. Venanzio, A. Sasso, C. M. Cialdelli, A. Tacco, A. Lazzarini, aperto solo le domeniche estive, o su richiesta.
- Le vecchie vie di Revine che salgono verso S. Francesco.
- Il Pian delle 'Femene', da dove si può ammirare la pianura trevigiana e il bellunese
- Le strette vie di Lago che scendono al lago di san Giorgio.
- Il Pian della Posa, luogo di lancio di parapendii e deltaplani
- Sottocroda, nascosta dietro una collina, punto di partenza per raggiungere la 'Posa'.
Appuntamenti:
La corsa dei "mus" a Lago la prima domenica di febbraio.
A Settembre, San Matteo a Revine, Mostra mercato del Libro, corsa delle 'Musse'.
Dal 25 Dicembre al 6 Gennaio, rappresentazione vivente della natività e dell’adorazione dei Magi a Revine.
Altre aree pubbliche attrezzate:
- Area verde sul lago di Lago (S. Giorgio)
- Area verde sul lago di S. Maria
- Un sentiero naturalistico, congiunge le due aree costeggiando le rive dei due laghi.

INTRODUZIONE STORICA

È durante il Neolitico che troviamo chiari segni di una frequentazione e stabilizzazione delle genti nel Veneto. Alle fasi più recenti di tale periodo (4.300-3.400 a.C.) risalgono le palafitte che sono state ritrovate presso il canale di collegamento fra i due laghi di Revine Lago.
 Con il Neolitico (4.500-3.000 a.C.) l’uomo trova sostentamento non solo nella caccia e nella raccolta, ma soprattutto nell’agricoltura e nell’allevamento, favorendo quindi gli insediamenti stanziali, i villaggi, e la scoperta di nuove tecniche come la lavorazione della ceramica e l’uso di strumenti in pietra levigata, ignorando però l’utilizzo dei metalli.
La ceramica investe un ruolo importate, in base alla tipologia di ceramica sono infatti state identificate culture diverse, tra le altre ricordiamo la cultura dei Vasi a Bocca Quadrata, che deve il suo nome alla forma dell'imboccatura di alcuni vasi. Tali ceramiche sono state trovate anche nel sito palafitticolo di Colmaggiore.
 Il periodo che va dal XXII al X sec a.C., successivo all’Eneolitico che vede il diffondersi di strumenti in rame e dei vasi in ceramica campaniformi, è chiamato Età del Bronzo per la lavorazione della lega Stagno-Rame ed il suo utilizzo per la costruzione di varie tipologie di strumenti, anche bellici. Durante questo arco di tempo le popolazioni del Veneto si organizzavano in insediamenti palafitticoli ed in villaggi ben protetti da mura dislocati sulle basse alture. Col finire dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro questi vennero preferiti agli stanziamenti posti lungo le zone collinari e montane poiché erano meglio difendibili.

 Nei secoli successivi, dal IX al I sec. a.C., si distingue un’altra epoca importante: l’Età del Ferro, in cui iniziò a delinearsi quella cultura che sarà poi definita degli "antichi Veneti"; i loro primi insediamenti degni di nota mantennero anche in epoca romana un ruolo rilevante, parliamo di Treviso, Oderzo, Concordia, Aquileia, Padova ed Este. Il paesaggio veneto cominciò una lieve trasformazione, le aree boschive furono ridotte per lasciar spazio ad aree aperte, agli insediamenti e soprattutto all’agricoltura. Negli ultimi secoli dell’Età del Ferro i Veneti si inserirono all'interno di un circolo di commerci molto ampio che coinvolgeva altre popolazioni, non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa Centrale, tra i quali vi erano anche i Celti.
 Il commercio intenso fra Veneti e Celti spinse questi ultimi a migrare verso sud alla ricerca di un clima più mite e terre fertili. La loro prima grande invasione in Pianura Padana risale al 388 a.C., costringendo i Veneti a stringere il primo rapporto di alleanza con i Romani, che si rivelò fondamentale anche successivamente per contrastare Annibale e il suo seguito e i Galli. Questa alleanza fu l’origine di un’intensa collaborazione che portò nel giro di due secoli alla romanizzazione del Veneto. Da principio i Romani fondarono la colonia di Aquileia, che divenne la colonia romana posta più a settentrione; in seguito il processo di romanizzazione continuò con la costruzione di vie consolari, nate con scopi militari ma che si rivelarono fondamentali per l’unificazione sotto il dominio romano: la fondazione della provincia Gallia Cisalpina (che includeva il territorio veneto) e il riconoscimento del diritto latino a tale provincia.
 Ulteriori vantaggi furono introdotti da Cesare che concesse la cittadinanza romana alle città transpadane, organizzò il territorio suddividendolo in municipia (avevano così autonomia amministrativa) e lo regolarizzò tramite la centuriazione: ben evidenti tutt’oggi sono i reticoli nei pressi di Padova, meno quelli che si snodavano nelle zone di Treviso, Conegliano, Ceneda e Oderzo, proprio nei pressi dei municipia. L’imperatore Augusto ordinò nuovamente il territorio romano in regioni e il Veneto ne prese parte all’interno della X° Regio Venetia et Histria; importante si rivelò la costruzione della Claudia Augusta Altinate che da Altino giungeva fino al Danubio, un collegamento diretto tra la pianura veneta e l’Europa Centro-Orientale.
 Ma la spinta espansionistica caratterizzante la Roma dei primi secoli venne meno a partire del II sec d.C., quando terminarono le guerre di conquista e iniziò una fase di consolidamento delle strutture difensive a Nord; a tal proposito vennero costruiti il Clausura Alpium Iuliarum e, a distanza di un secolo, il Tractus Italie circa Alpes, che dovevano formare una barriera di arresto per i barbari. Intanto nel 395 d.C. l’impero venne diviso da Teodosio I in Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente, tale divisione porterà ancora più instabilità, tanto che la capitale Occidentale fu dapprima trasferita a Milano e poi a Ravenna. Ma tutto ciò non bastò ad arrestare la via che l’impero aveva intrapreso e nel 476 d.C. il generale germanico Odoacre, a capo dell’esercito romano, depose l’ultimo imperatore Romolo Augustolo inviando le insegne imperiali a Bisanzio, all’imperatore Zenone.
 Da questo momento si suole dare inizio all’età Medievale, un periodo di 1000 anni che iniziò con la fine di un grande impero e che terminerà con la formazione dei primi Stati europei.
 Con la caduta dell’Impero Romano si consolidarono entità che si erano già ben inserite nella geografia italiana, i Regni Romani Barbarici. Da principio i Goti che, coscienti della grande eredità lasciata dai Romani, avviarono una collaborazione pacifica, mantenendo molte delle loro piazzeforti e costruendone di nuove per difesa contro popolazioni barbare che continuavano a minacciare l’Italia.
 Fu in questo momento che Treviso assunse grande rilevanza: divenne quartier generale del goto Totila circondata da altri insediamenti che erano posti a sua difesa.
 La guerra greco-gotica (535-553) vide contrapporsi ai Goti i Bizantini, che premevano di impossessarsi delle frontiere e formare un unico grande impero, ed ebbe fasi alterne terminando con la vittoria imperiale. Questa guerra non portò beneficio all'Italia, anzi, produsse solo un aggravamento della situazione politica ed economica. Alcune piazzeforti gote continuarono a resistere; a queste si aggiunsero insediamenti dei Franchi, sopraggiunti approfittando della situazione poco stabile per potersi inserire nell’ambito italiano. L’Italia era quindi reduce da una guerra devastante che la pose sotto il dominio del lontano Impero Bizantino, che nulla aveva a che vedere con quello che era stato l’Impero Romano d’Occidente e, infatti, si rivelò incapace di difenderla da ulteriori attacchi esterni.
 Nel 568 arrivarono i Longobardi, invasero l’Italia giungendo da Est e impossessandosi dei maggiori centri della pianura padana; si diressero poi verso Sud, dando prova non tanto di una buona strategia militare, in quanto non era stata programmata nessun’invasione, ma piuttosto mettendo in evidenza l’incapacità del lontano Impero a fronteggiare il nemico.
Nel giro di un secolo l’Italia si presentava a macchia di leopardo: la maggior parte della costa era rimasta in mano ai Bizantini (fra cui Venezia ed Oderzo), ma dal Nord al Sud si distribuiva in modo disomogeneo la presenza longobarda.
 Da questo momento l’Italia manterrà per i secoli successivi quella divisione politica che verrà restaurata solo con l’Unificazione del Regno d’Italia nel XIX secolo.
 I Longobardi organizzarono i loro accampamenti in luoghi strategici utilizzando un sistema di fare, di cui resta traccia ancora oggi nei toponimi nei comuni della pedemontana trevigiana e bellunese, e conquistando alcuni possedimenti bizantini tra cui Padova, Monselice e anche Oderzo, permettendo di rafforzare il ruolo di Ceneda, divenuta sede di una nuova diocesi e di un nuovo ducato.
 La vicenda longobarda terminò nel 774 d.C. quando Carlo Magno scese in Italia e, sconfiggendo il re Desiderio e il figlio Adelchi, assunse il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi, facendo rientrare anche il nostro territorio nell’ordinamento carolingio, organizzato in comitati e marche retti rispettivamente da conti e marchesi. Treviso crebbe d’importanza durante quest'epoca, poiché era vicina alla bizantina Venezia, Ceneda non riuscì ad accrescere il suo prestigio tant’è vero che non vi sono testimonianze della presenza di conti fino al termine del X secolo, e anche successivamente ebbe un ruolo poco attivo nella politica locale, nonostante anch’essa avesse preso parte al cambiamento verificatosi durante il periodo carolingio, nel corso del quale i comitati divennero patrimonio locale del conte e tramandati per via ereditaria.
Con la seconda metà del IX secolo inizia un nuovo periodo di crisi: la fine del regno Carolingio nel 887, il tentativo di varie personalità di raggiungere il potere, le invasioni di Saraceni, Ungari e Normanni aggravano maggiormente la situazione già precaria dell'Italia e così, dalla fine del IX secolo al XII-XIII, inizia la fase chiamata incastellamento, che vide un susseguirsi di costruzioni difensive edificate da signori, ed in seguito anche da vescovi, che in mancanza di un re capace di difendere la popolazione si sentirono in dovere di proteggerla, ma soprattutto di esercitare diritti fiscali e di giustizia.
 Il territorio allora fu conteso dalle maggiori famiglie di feudatari fino a che l'Italia si riunì alle sorti del Regno di Germania e di nuovo contesa dalle dinastie tedesche. Nel 951 divenne Imperatore Ottone I.
 I vescovi di Ceneda, grazie a varie concessioni, diventano feudatari imperiali: il vescovo Sicardo, infatti, ricevette nel 962 dall’imperatore Ottone le terre intorno a S. Floriano, Meschio, Cervano Novena; Revine rientrava in questa area e vi rimarrà legata fino al 1769. Il vescovo bellunese ricevette i diritti sulle terre intorno ai possedimenti del vescovo cenedese, tra cui Oderzo, Soligo, Combai e Tarzo. I conti di Treviso si stabilirono a nord della città dove avevano ottenuto un castello in terra del re. Il cenedese rimase terra contesa per parecchi decenni dai vescovi di Belluno e dai conti di Treviso. Intanto si assestarono le famiglie dei conti, che dalla sede del loro castello presero il nome di “Collalto”; nella nostra zona cresceva invece il prestigio della famiglia dei Da Camino, originari da Montagner, i quali si trasferirono nel castello di Camino dei pressi di Oderzo. Nel XII secolo cresce maggiormente il potere di questa famiglia grazie alle donazioni dei vescovi di Belluno e di Feltre e di Ceneda. Tra le personalità da ricordare della famiglia da Camino vi è sicuramente Sofia da Collalto, che con il matrimonio con Guecellone da Camino nel 1154 ricevette la possibilità di esercitare poteri signorili nel Comitato di Ceneda e in quello di Belluno.
Revine "l'antica via dei castelli"
Storie e scorrerie tra le terre di Revine Lago

Quando ci riferiamo storicamente a Revine Lago dobbiamo per forza parlare di Vittorio Veneto, in altre parole di Serravalle e Ceneda.
 Serravalle, o meglio l'antica “Castrum”, è un complesso fortificato medioevale probabilmente di origine romana che fu ricostruito dai Da Camino nel XIII secolo ed ospitò poi i Podestà della Repubblica di Venezia.
 La vicina Ceneda, l'antica "Keneta", nominata come città già dallo storico Agathias nel IV secolo d.C., fu probabilmente sede di una "praefectura" dipendente da Oderzo, quindi un insediamento di retrovia nella fase espansiva della Roma del primo secolo d.C.. Questo centro fu comunque dotato quasi sicuramente di edifici pubblici, di una zona produttiva lungo il Meschio, di un bagno pubblico e forse di un teatro, localizzabili nei pressi dell'attuale Duomo.
 Sulla sommità del retrostante colle di San Paolo, su un preesistente castelliere paleoveneto, era localizzato, come testimoniano tracce di un pavimento musivo, il ridotto difensivo ovvero l’"arx" romana.
 Ceneda, quindi anche Revine Lago, era comunque parte di quella terra che diventerà l'antica diocesi di Opitergium; i cui territori veneti nella suddivisione italica in epoca augustea appartenevano alla X Regio della tribù Papiria. Infatti Plinio e Tolomeo ascrivono Belluno, Oderzo e Feltre a questa Regio; nel 43 a.C. Augusto, riorganizzando i domini romani, suddivise la penisola in 11 regioni e “le Venezie” formarono per l’appunto la decima regio.
 Da alcune documentazioni si rileva che "l'Agro Opitergino" è un territorio confinante a Nord con il Feltrino ed il Bellunese, ad Est con Concordia e Aquileia, a Ovest con Asolo e l'Altinate e a Sud con il Mare; del resto è logico che con la realizzazione della Postumia Oderzo ebbe ulteriori spazi a nord; e ancora di più li ebbe con la realizzazione della Claudia Augusta Altinate, iniziata già dal generale romano Druso, che sottomise le popolazioni alpine e danubiane nel I secolo d.C.; successivamente la via fu completata dal figlio di Druso, l’Imperatore Claudio, verso la metà del secolo. Lo confermano indiscutibilmente due pietre miliari: un cippo di Rablà/Rabland, rinvenuto nel 1552 nei pressi di Merano (BZ), e ora conservato presso il Museo Civico di Bolzano, e un altro cippo con la stessa iscrizione rinvenuto nel 1786 a Cesiomaggiore presso Feltre (BL), e conservato in loco presso la settecentesca Villa Tauro alle Centenère, la cui iscrizione ci dice:

Ti[berius] Claudius Drusi f[ilius]
Caesar Augustus Germa
nicus pontifex maxu
mus tribunicia potesta
te VI co[n]s[ul] IV imp[erator] XI p[ater] p[atrie]
censor viam Claudiam
Augustam quam Drusus
pater Alpibus bello pate
factis derex[e]rat munit ab
Altino usque ad flumen
Danuvium m[ilia] p[assuum] CCCL
 Così tradotto: “Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, figlio di Druso, pontefice massimo, insignito della tribunicia potestas per la sesta volta, console per la quarta, imperatore per l'undicesima, padre della patria, censore, la Via Claudia Augusta, che il padre Druso, aperte le Alpi con la guerra, aveva tracciato, munì da Altino fino al fiume Danubio per miglia CCCL”.
 Luigi Marson in “Romanità e divisione dell’agro cenetense” 1904, pag. 71, ricorda che a Ceneda furono “rinvenute dei tempi romani, tombe, cippi, lapidi e altri oggetti, tra cui una pietra che servì di muratura sepolcrale rinvenuta ai Zambòn, negli scavi della ferrovia nel 1879, con epigrafe dell’imperatore Claudio e colla distanza da Roma, e ora - afferma il Marson - si può vedere affissa esternamente sul muro della casa dott. F. Pancotto”, ex casa dott. Carlo Graziani.
 Diviene perciò logico pensare che già in epoca romana esistessero lungo il confine delle postazioni strategiche di vigilanza e segnalazione per le retrovie, per l'appunto "torri di guardia", come le tre fortezze di Revine Castel Maor sito nel “Pra de Palath”, Salt del Casin con la sua tipica base rastremata romana sito sopra S. Francesco, il Castello di Monte Frascon, e molte altre rocche del circondario come quelle di S. Augusta e quella S. Floriano dove sulla facciata di settentrione si possono scorgere addirittura mattoni romani timbrati OF, come ci ricorda il Vital in “Romanita nel territorio di Conegliano” pag. 40; inoltre anche il Marson nella sua “Guida di Vittorio”, pag. 34, a conferma, ci parla anche del ritrovamento di alcune monete dell’Imperatore Vespasiano proprio alla base della torre.
 Queste terre erano indubbiamente percorse dai Romani; una notizia che ci giunge da Marco Anneo Lucano Cordova di Roma nel 65 d.C., afferma che Cesare nel 46 a. C., vincitore a Farsalo, assegnò agli opitergini alleati contro Pompeo ben 300 centurie di terreno, di circa 150 Kmq verso le montagne.
 Quanto detto viene chiaramente confermato molto più tardi anche nell’Agri Tarvisini Descriptio del 1583 da Giovanni Pinadello: "Viene Uderzo per lo più da i scrittori antichi chiamato latinamente Opitergium, come si vede in Plinio nel 18 capo del terzo libro, che lo ripone nei mediterranei della Regione Veneta per essere sino allora atterrata la lacuna da quella parte; parimente da Tolomeo nelle sue tavole geografiche viene posto dentro a’ terra con l’istesso nome et ne l’istessa provincia. Cornelio Tacito parimente cosi lo nomina nel 19° libro dell’ Historie. Ma Strabone poi come io credo con Fr. Leandro lo chiama Epiterpum, ingannandosi per aventura l’Ortelio dicendo che Epiterpo da Strabone nominato fosse dentro le paludi di Ravenna. Che questa città fosse a’tempi antichi nel lito del mare et che tenesse armata di mare ne fa amplo testimonio Lucano nella “Guerra Farsalica”, Cesare ne’ suoi “Commentarii” et Lucio Floro ne gli “Epitomi”, appresso i quali si ha, che nella guerra civile tra Cesare et Pompeio, havendo  gl’opitergini mandate le loro navi con mille huomeni in aiuto di Cesare, et andando le cose molto prospere a Pompeio, volsero più tosto ch’andar nelle mani di Pompeo da se stessi uccidersi. Giace hora Uderzo tra la Piave et la Livenza lungi dal mare circa dodici miglia, per la più breve, se bene Fr. Leandro dice più di 30 et è discosto da Trivigi per Garbino circa 13 miglia (standogli Trivigi quasi per apunto dalla parte di Garbino, cioè giustamente tra mezo dì et ponente). Da Venetia poi che è posta al mezo dì nell’istesso meridiano si discosta sino 22 miglia, le quali crescono poi alquanto nel far il viaggio. Et è bagnato dal fiume Montegano, detto da Fr. Leandro Mutego, che discendendo da i colli di Ceneda va a sboccare nella Livenza alla Motta. Ha patito tante calamità Uderzo, che non è meraviglia s’hoggidì è ridotto in picciola terra: perché come alcuni scrittori dicono fu egli prima rovinato da Pompeiani nella guerra con Cesare, dal qual Cesare fu poi ristorato, et assignatogli le sue confine tra i fiumi Piave et Taiamento et tra i monti che furono detti Opitergini (l’autore si riferisce ai montes opitergini ciati da Plinio), et il mare, et da quel tempo in qua fu governato da prefetti cesarei sino alla venuta d’Attila in Italia, che lo prese et distrusse del 453.
 Basilio Sartori nel suo libro “La Valle Lapisina, tra storia e leggenda”, pag. 29, a ragione, sostiene che i Romani per rendere sicuri i passi alpini orientali nel 181 a.C. fondarono Aquileia, non dimenticando i valichi delle Prealpi cenedesi, altrettanto vitali per la sicurezza della regione e delle grandi vie di comunicazione, e, per garantirsi l’aiuto di Roma contro i “nemici della montagna”, i Veneti parteciparono alla lotta contro Cartagine, la soccorsero durante l’invasione dei Galli, diedero per l'appunto, una mano a Cesare contro Pompeo, che pur impegnato a fondo nella campagna delle Galie, aveva distolto una delle sue prestigiose legioni per inviarla in loro soccorso.
Io credo si possa ipotizzare che Cesare Augusto sia stato probabilmente colui che fece costruire le prime fortificazioni romane intorno al 15 a.C. per controllare le popolazioni ostili del Norico, cioè del Cadore, e fu ciò che portò all'espansione dell'agro opitergino, tanto che verso il 20- 30 d.C. l’imperatore ampliò addirittura il presidio militare cenedese allargandolo di lato per un quadrato di circa 10 Km, che aveva per angoli attorno Ceneda i paesi di Fregona, Tarzo, Conegliano e Cordignano, uniti tra loro dalla "centuriazione claudia", che originò successivamente, per l'appunto, “l'agro cenedese”. Basilio Sartori azzarda ipotizzare la costruzione delle prime fortificazioni di Serravalle addirittura al tempo di Giulio Cesare, intorno al 46 a.C., mentre vede il “Castrum” sorgere più tardi in difesa di Ceneda, al tempo di Ottaviano Augusto, tra il 15 e l’8 a.C., quando mandò i suoi generali Druso e Tiberio a sottomettere definitivamente a Roma le genti alpine. Infatti, è anche vero che il Marson in “Romanità e divisione dell’agro cenetense”, parla di ritrovamenti di monete a partire dal tempo di Cesare a quello degli ultimi Imperatori.
 Sicuramente anche a Revine, che rientrava in questo quadrato, vi erano stanziamenti e fortificazioni romane con delle torri sul passo del Frascon, una locanda di ristoro e magari qualche attività artigianale; ne sono prova le rovine dei tre castelli che probabilmente hanno origine romana anche se poi riadattate dai barbari alle esigenze di turno e la strada ciottolata romana rinvenuta sul Monte Frascone. Ci sono poi ulteriori tracce di un’altra antica strada romana e una lapide militaria, rinvenute proprio a Revine scavando alle fornaci, come ci ricorda Basilio Sartori nel suo libro “Tarzo, signor d’antica terra”; inoltre mi è giunta notizia di un altro tratto di strada probabilmente romana, rinvenuto in Località Selve, prima della seconda Guerra Mondiale, dal Signor Celeste Della Giustina contadino di Revine che ne mise in luce i resti mentre scavava un solco per piantare delle viti, al tempo la notizia non fu di dominio pubblico, perciò fu dimenticata. Poi in tutta la zona limitrofa ci sono stati ritrovamenti di statuette, monete, armi e altri reperti archeologici di epoca romana, ora visitabili al Museo del Cenedese. A Revine Lago, per esempio, ad Est di Santa Maria nei pressi della riva del Romit, nel 1984 sono state ritrovate dal signor Chiarel Luciano due monete romane di circa cm. 2 di diametro: un bronzo di Valeriano (253/260), con l’effige dell’imperatore in un verso con la scritta “Valerianus Aug” e sull’altro verso la Dea Roma che tiene in mano la vittoria, e un altro bronzo di Cesare Costanzo Gallo (351/354), con l’effige di Cesare da un verso e la scritta “Diniul Cod…Tius Caes” e sull’altro verso un soldato romano in piedi, che colpisce con una lancia un barbaro a cavallo.
 L’analisi etimologica dei toponimi di Revine ci riporta ancora a suffragare questa supposizione di stanziamento romano; infatti, alcuni ricercatori, oltre ad indicare che Revine deriverebbe da Ripa, “luogo scosceso divenuto poi Ripinae, toponimo già riscontrato in antiche carte, sostengono che possa derivare da Re o Re-Vignae, “Luogo del Vino”, forse con riferimento per l’appunto ad una locanda sul passo in epoca romana o come indicazione di terre coltivate a vigneti, come fa pensare la vicina Introvigne “tra i vigneti” in località di Tarzo; lo stesso nome del passo del Monte Frascon sembra derivare da “frasca” che in dialetto bellunese indica ancora una probabile locanda nella zona ove esisteva qualche attività artigianale, come suggerirebbe anche l’antico nome di un’altra località di Revine chiamata ancora oggi Magnader (Loc. S. Marco), che per me indica semplicemente "Luogo dove si mangia", supportando ancora una volta l'esistenza di una locanda, ma alcuni credono, invece, essere il nome dell’antico paese scomparso, un toponimo originato da "Magnanus" cioè fabbro, comunque un paese distrutto da una frana, o meglio “Rova” smottamento sulle cui rovine sarebbe nata Ruinae, Rouine ed infine Revine; non è un’ipotesi assurda dato che ci giunge notizia di uno dei terremoti più disastrosi con epicentro proprio le montagne vittoriesi, accaduto nel 365: pare che in tale circostanza sia precipitato il Monte Soccher a Ponte nelle Alpi. Altri terremoti si ebbero nei dintorni anche nel 1451, nel 1485, nel 1511 e nel 1756, con epicentro Ceneda.
 Credo che queste ipotesi di smottamento siano delle reminiscenze tratte dalle idee giunteci da Pietro Carnielutti, che intorno al 1840 scrisse "Della Venezia antica e i suoi abitatori". Fu colui che sostenne che il Piave anticamente scorresse nella Valle Lapisina sino a Serravalle dove però trovando la strada sbarrata dalle alture collinari avrebbe deviato poi per la Val Mareno e pei territori di Forcal e Follina inalveandosi nel Soligo che è un affluente del Piave.
 Egli sostenne per l'appunto che la rovina di un monte avrebbe formato il Magnader ed il laghetto di Revine e provocato gravi allagamenti, per cui si sarebbe resa necessaria l'apertura di un varco a Serravalle, allo scopo di far sfogo alle acque le quali si sarebbero inalveate e, girato il Montello, avrebbero trovato scarico nel Sile.
 Successivamente sarebbe avvenuta la caduta di un altro monte, denominato dal Carnielutti "Pineto" che si trovava a sette miglia sopra Serravalle. La grandiosa frana avrebbe creato le alture di Fadalto (nome che l'autore vuol derivato da "luogo fatto alto") provocando la deviazione del Piave verso Belluno nell'attuale alveo.
 Le testimonianze della presenza romana in queste terre e nel trevigiano sono molte, si ricordi ad esempio, la tomba romana del liberto Ragoniae Tertulae del I° sec. d.C. conservata presso il Castello di Collalto a Susegana che fu trovata a Nervesa ed attestante la presenza romana in un sito anch’esso collocato in una posizione predominante a difesa del territorio in cui gli “agrimensori“ romani costruirono il contesto agricolo durante il I° sec. d.C., denominato centuriazione nord di Treviso. Più vicino a Revine, invece, incuriosisce l’origine etimologica del paese di Tarzo; lo storico Luigier citato dal Marson e ripreso dal Sartori lo fanno derivare da “Tertio miliario”, un ceppo che indicava la distanza progressiva dal Castrum di Serravalle, mentre l’Olivieri, un altro storico, lo fa derivare addirittura dal nome di un certo nobile patrizio romano, chiamato “Tartius, o Tarcius”, mandato a governare queste terre per Roma imperiale; questo nome, sempre secondo l’Olivieri, sarebbe citato in molte lapidi romane.
 Comunque nonostante le varie ipotesi sull'origine etimologico di Revine e di Tarzo, rimane logico pensare ad una stazione di ristoro in epoca romana con una locanda e un fabbro, era quello che serviva alle genti di passaggio sul passo del Frascon, poi sappiamo bene quanto i Romani bevessero: si calcola che a testa, durante i banchetti, fossero consumati all’incirca dai 3 ai 5 litri di vino, i barbari non erano da meno. Tacito parlando dei Longobardi nel “De Germania” (98 d. C.) scrive: “Mangiano cose naturali, frutta selvatica, cacciagione fresca, latte rappreso. Non usano condimenti nel cucinare i cibi. Nella sete sono meno temperanti. Facendoli ubriacare, sarà più facile vincerli con il vino che con le armi.  Non conoscono interessi, né usura. Non hanno traffici né acquistano cose forestiere. Coltivano estensivamente, procurandosi più terra di quanta non riescano poi a lavorare”.
 Dopo tutto sappiamo che il Cadore è ricco di miniere di acqua corrente, legna di castagno torba, tutto ciò che serviva alla lavorazione dei metalli. Nelle nostre terre c’era quindi tutto ciò che serviva, lo confermano, anche se molto più tardi, i versi seguenti dell’Agri Tarvisini Descriptio di Giovanni Pinadello: "Ha Serravalle il territorio molto ameno et fertile compartito in pianura e in collina, che produce in abbondanza formento, vino, oglio delicato, et frutti d'ogni sorte, et vi sono in esso molti laghetti di chiare acque, ch'apportano diletto et utile per i pesci che vi si pescano, si come si fa ancora nel fiume Meschio che ne produce d'ottimi.
 Et sono in questo territorio 16 ville et luoghi soggetti sotto il reggimento di Serravalle, cioè Lago, Vizza, Fadale, Fais, Rindola, S. Martino, Pinadello, Gai, Castel, S. Fior, Capella, Usigo, Danzan, Fregona già buon castello et feudo del vesc. di Ceneda."
 Citando poi Ceneda del suo tempo riferisce: “Il territorio hora soggetto a Ceneda è di 14 miglia di circuito et è molto ameno ed abondante di formento e d’ogni sorte de frutti, et contiene dentro di se queste cinque ville cioè S. Giacomo, Carpesega, Cozzuolo, S. Lorenzo e Ruine et oltre di ciò è soggetto nel temporale all’istesso vescovo il contado di Tarzo….”.
 Riferendosi alle antiche fortezze sulle cime circostanti scrive:
"Serravalle è buona terra due miglia sopra Ceneda nei confini del Bellunese, che gli sta da tramontana et del Friuli, che dall'oriente lo risguarda. Questa terra doppo le venute che fecero le straniere nationi de’ Gothi, Ongheri et Longobardi nel Friuli et nella regione Veneta, fu edificata fra due monti nel fondo della valle che viene da essa serrata et chiusa dicendosi per ciò Serravalle, sopra i quali due monti furono già alcune rocche o fortezze et torri, per salvezza de' paesani ne' bisogni che hoggidì sono rovinate".
 Questa città afferma detto Cinthio, che fosse edificata da i populi latini, che vennero con le colonie, mandatevi dal senato romano ad instantia degl'ambasciatori aquileiesi sotto il triumvirato di Tito Annio Lusco, Pub. Decio Subulo et M. Cornelio Ceteo. Fu prima questa città sotto l'Impero Romano, et fu una volta dominata da Marcello romano capitano de cavalli imperiali, ch'era conte di essa et insieme di Feltre e di Belluno; ma alla venuta d’Attila in Italia, che distrusse Aquileia et tutta quasi la provincia di Venetia del 453, alcuni vogliono che Veneda fosse ben danneggiata da gl'Hunni, ma non altrimenti distrutta, altri vogliono poi ch'ella fosse con l'altre città distrutta et che ritornata in esser fosse poi un'altra volta da Totila, overo dal padre d'esso, habitando l'uno et l'altro in Trevigi, rovinata.
 A tal proposito mi sento di collegare ai ricordi di Cinthio un appunto del Marson a pag. 73 di “Romanità e divisione dell’agro cenetense”, dove parla di un’iscrizione romana d’un certo Marcello letta in una lapide trovata, per l’appunto, nella Via di Anzano e illustrata dal Carnielutti.
 Con l’avvento della giurisdizione aquileiese, il territorio ad essa attribuito comprendeva una ventina di vescovadi in Italia ed un'altra decina oltre le Alpi. Durante il V secolo, Alarico cinse d'assedio Aquileia per ben due volte 401-402 e 408 ed Attila la saccheggiò nel 452.
Alla discesa dei Goti le nostre terre non rimasero indenni, infatti, ad esse è legata la leggenda della martire serravallese S. Augusta, il cui culto fu ufficializzato solamente nel 1754.
 Augusta era la figlia di Matrucco, condottiero al seguito di Alarico re dei Visigoti, Odi Manducco, padre di Totila, per altri, invece, era al seguito dell'ostrogoto Teodorico.
 La leggenda rievoca nell’immaginario gli antichi eventi e le contese che vi possono essere stati allora tra i signori dei castelli; infatti, non a caso il Castello di Catena Amor sembra dominare strategicamente il Marcatone, la collina di Santa Augusta e di conseguenza “il castello di re Madre” che appariva frontalmente innanzi il muraglione del castello che tutt'ora resiste alla rovina.
 Le prime notizie comunque sono solo delle citazioni, infatti, in un manoscritto del 1234 viene citato il “Mons Sanctae Augusta”, il che fa ipotizzare che questo toponimo fosse già usato da tempo dalle popolazioni locali, inoltre nello statuto serreavallese del 1360 si dice che il santuario di santa Augusta ed il suo culto vantano origini antichissime ed è in quello stesso periodo che fu rinvenuta un’arca lapidea con le ossa della martire.
 Più dettagliate notizie furono redatte solo intorno al XVI secolo da Minuccio de’ Minucci di Serravalle, segretario di papa Clemente VIII (1592-1605); le stesse furono inserite nel vol. VII dell’edizione dei volumi “De Probatis Sanctorum Historiis” di Lorenzo Surio, certosino e agiografo tedesco (1522-1578) stampata a Colonia in Germania.
 Il testo "Vita di Santa Augusta" edito nel 1550, basato per l’appunto su un testo precedente, fu ripreso nel 1754 da un certo Andrea della stessa casata; entrambi sostengono che Santa Augusta fosse figlia del capo goto Matrucco, che secondo lo storico Graziani sta per “Mand-Huk”, che significherebbe capo del popolo; egli, dopo aver conquistato e sottomesso tutto il Friuli, giunto nei pressi dell'attuale Vittorio Veneto al seguito di Alarico, nel 410 si stabilì su un colle, il Marcantone, sul quale fece costruire un castello e da lì iniziò a perseguitare i cristiani della vicina Ceneda. Infatti, in quel periodo, è noto che nel Cenedese esistessero alcune chiese cattoliche, dato che ne sono stati trovati dei resti, e probabilmente sono le stesse chiese che furono frequentate, come dice il Minucci, da Augusta.
 Re Matrucco sospettando che sua figlia fosse stata iniziata al cristianesimo dalla sua balia Cita e constatato che frequentava assiduamente la chiesa, la interrogò a riguardo, ma visto che lei si ostinava a difendere la sua fede senza indugio, la fece imprigionare per un certo periodo. In seguito le chiese se avesse cambiato idea, ma avendo lei negato le fece strappare due denti e la rinchiuse di nuovo in prigione, aspettando che si arrendesse alle torture e tornasse alla religione dei suoi avi. Dopo un certo tempo re Matrucco, vista la tenacia e l’ostinazione della figlia che non si piegava al suo volere, prese la decisione di bruciarla viva, ma, secondo la tradizione, ella uscì dalle fiamme illesa, cosicché si narra che venne legata ad una ruota e fatta rotolare da una collina. Rimase ancora illesa e, non avendo riscontrato ferita alcuna, fu barbaramente decapitata. Non si conosce la data precisa della sua morte, si accenna all'anno 410, ma secondo Andrea Minucci tale data non pare affatto attendibile, infatti fa riferimento solo ad una pietra seicentesca posta sul santuario della santa.
 Non bisogna dimenticare che questa Santa fu chiamata anche “Augusta da Ceneda”, ed etimologicamente non a caso ricorda il nome Augusto/a che significa “consacrato”; esso fu anche un nome comune usato spesso per onorare l’imperatore romano Augusto; come lo è per l’appunto l’antica “Via Claudia Augusta Altinate” che partiva da Altino (VE) ed incrociava la Postumia, anch'essa una Via romana che traversa Treviso nord, risaliva la riva sinistra del fiume Piave nei pressi di Susegana, passava sotto San Gallo, prendeva la valle del fiume Soligo e raggiungeva Follina e poi i nostri passi per la Valbelluna.
 Curiosa anche la teoria del Marson, sempre in “Romanità e divisione dell’agro cenetense”, che a pag. 72/73, ricordando le similarità con S. Casilda e il culto della Dea Bona, probabile reminiscenza del culto di Marte e di S. Martino, il noto centurione di Costantino, sostiene un influsso romano sul culto paleoveneto di una divinità agreste, la ricorrenza della festa coinciderebbe con l’antico ingresso del sole nella costellazione della Vergine, nel mese che assume il nome da Augusto, sotto il quale potrebbe essersi regolata la festa, ed è naturalmente provato che in quel tempo stesse avvenendo una transizione dal culto pagano al culto cristiano.
 Dopo le devastazioni di Attila e dei suoi Unni, la responsabilità di assicurare lo sviluppo civile e culturale di Aquileia venne assunto dalla Chiesa. Successivamente vi passò Teodorico e, nel 489, ci fu la battaglia con Odoacre. Seguirono l'occupazione bizantina nel 552.
 Nel lungo periodo di queste invasioni barbariche, Ceneda è più volte conquistata, ma mai definitivamente distrutta, soprattutto per la sua posizione strategica che diventa spesso rifugio e sede stabile degli stessi invasori. Già fortificata da Teodorico, fu poi piazzaforte avanzata dei Franchi attestati sulle Alpi nel VI secolo ed è a questo punto, secondo lo storico Agathias, che il loro re Leutari muore di malattia proprio nel suo castrum di Ceneda nel 553.
 Le fortificazioni romane, comprese quelle di Revine, costruite a catena prima per uno stesso sistema difensivo, con l’arrivo dei barbari si trovarono in contrapposizione e ben presto la resistenza bizantina nelle rocche del M. Frascon dovettero tener testa anche ai Longobardi di Alboino, scesi nel 568 a occupare Ceneda, Feltre e Belluno. Ci riuscirono per più di 30 anni, anche perché versarono loro un tributo annuo in oro.
 Il popolo longobardo, che era già conosciuto dai Romani al tempo di Augusto e Tiberio 5 d.C., come ci ricordano le narrazioni di Velleio Patercolo (storico romano degli inizi del I. sec. d.C.), senza grandi strategie scese in Italia consapevole che gli italici non erano contenti dei Bizantini per le esose gabelle dei loro funzionari. I Longobardi inoltre sapevano che la milizia bizantina era scarsa, non poteva opporsi ad una vera invasione e per natura quei pochi Ostrogoti rimasti, essendo in fondo germanici come loro, si sarebbero uniti contro i Bizantini.
 I Longobardi tra il 568 ed il 773 stabiliscono nelle terre acquisite un Ducato che va dal Piave al Tagliamento; infatti, nel 639, a completare la conquista veneta dei Longobardi, anche Zumelle, Mel, Serravalle e Revine caddero nelle mani di Autari. Il nuovo re longobardo con il suo editto nel 1643 promulgò una serie di leggi, secondo i bisogni del tempo, di ben 388 articoli che sostituirono la ”cadarfreda”. Ceneda divenne così un ducato tra i primi istituiti in Italia.
 A proposito Basilio Sartori, nel suo libro “Signor d’antica terra”, citando il Marson asserisce che, sulle testimonianze di precedenti autori, ucciso il duca del Friuli Gisulfo dagli Avari, Ceneda diventa il centro di un potente Ducato comprendente anche le "sculdascie" di Belluno e Feltre, formando un antemurale prima dal Piave al Tagliamento, poi fino al Meduna e Livenza per la successiva reintegrazione del ducato del Friuli sotto Geraulfo, fratello del duca estinto. Anche lo storico Paolo Diacono sembra confermare questa tesi.
 Tra i duchi più importanti spiccano alcuni nomi come Teudemar, Agimuald e, come ci ricorda lo storico di Cividale Paolo Varnefrido, detto Paolo Diacono (nato poco dopo il 720), il noto Orso di Ceneda, fratello di Pietro di Cividale e figlio del leggendario “Munichis”, uomo valoroso, del quale si dice che, dopo essere stato disarcionato e dopo che uno degli Slavi subito le corse addosso legandogli le mani con una fune, questi presa la lancia dalla mano dello slavo, con le mani legate, lo colpì con quella e, ancora legato, fuggì.
 L’insediamento longobardo all'inizio fu limitato a nord dalle forze bizantine che da Oderzo si spingevano verso la zona bassa della Valbelluna ed è qui che l'esercito longobardo incentrò stanziamenti militari, disponendo torri di avvistamento, spesso riadattando con fortilizi le precedenti che si ergevano sulle vie che conducevano alla Valbelluna, per l'appunto come quella di Revine Trichiana e Limana. Queste torri che servivano per avvistare il nemico e comunicare con le proprie forze armate, vennero durante il medioevo feudale governate da schieramenti opposti. A questa rete fortificata si può ricondurre il fortilizio "Castro novo" di Tarzo Corbanese, il fortilizio "Castrum Costae" di Gai Tovena Cison e lo "Spaldum Frasconi" di Revine. Quest’ultimo, situato a quota 450 m., ai piedi del monte Frascon all'inizio della mulattiera, non è il solo: infatti, risalendo la mulattiera si giunge all'imponente torre di Castel Maor, a quota 720 m., che ha un basamento di ben 250 mq. e sembra eretta appositamente per controllare l'opposta fortificazione del Marcantone, meta della leggenda di Santa Augusta.
 Quanto detto ci viene in parte confermato da Giovanni Pinadello che, parlando di Ceneda, ci fa sapere:
 Alla venuta poi de' Longobardi in Italia, ella fu da loro ristorata, o di nuovo fabricata et governata. Doppo i quali tornando sotto l'Imperio romano fu concesso il dominio di essa dall'imperatore nel temporale ancora a i vescovi cenedesi circa gli anni 740 insieme con tutto il suo distretto che conteneva Zumele, Valmarino, Conigliano, Serravalle, Fregona, Regenzuolo, Cordignano, Cavolano et Forminica. Della qual giurisdizione temporale sendone il vescovo di Ceneda spogliato da i Berengarii ch'occuparono per un pezzo l'imperio, gli fu di nuovo da Ottone imperatore restituita intorno agli anni 780, concedendo l’investitura di essa et di tutto il cenedese col mero e misto Imperio a Sicardo vescovo di Ceneda.
 Dal qual tempo quand'ella è stata sotto i suoi vescovi e quando sotto i Trivigiani, da' quali si sottrasse insieme con Conigliano del 1153, ritornando sotto a i vescovi sino all' anno 1180 ch'ella si diede protettione a' Padovani insieme con Conigliano. Andò poi Ceneda sotto il Vescovo di Belluno quasi subito et nel 1183 in circa furono da Federico p°. Imperatore confirmati al vescovo di Ceneda i suoi privilegii separandola dalla giurisdittione di Trivigi, et da ogn'altra se bene poi gl'istesso anno Cenedesi prestarono abedienza a, Trivigiani, si come fecero ancora  del 1199 che poco prima s’erano da quelli discostati, ma ritornarono di nuovo in libertà insieme con coneglianesi del 1233 dandosi subito in protettione de' Padovani.
 Fu poi grandemente travagliato il cenedese da Federico 2° imperatore et da Ezzelino da Romano il quale l’anno 1242 lo consumò quasi tutto.
 Tra il VII-VIII sec. nasce la diocesi di Ceneda. Infatti, il duca di Ceneda, Teudemar, espose al re Liutprando il desiderio del clero cenedese di avere un proprio vescovo, dopo la fuga di quello opitergino e, verosimilmente, chiese per il neo eletto gran parte della circoscrizione diocesana di Oderzo.
 Lo svolgimento delle trattative, poi, proseguì secondo una prassi che può considerarsi normale in quei tempi. Il re, che controllava, è vero, le attività della Chiesa, ma non voleva far vedere d’intromettersi direttamente nella delicata questione della nomina d'un vescovo, si limitò a concedere l'autorizzazione a procedere e girò la faccenda al competente patriarca d'Aquileia, Giovanni, affinché provvedesse "secondo i sacri canoni". Le trattative, cui alluse il documento col termine "collocutiones", dovettero essere brevi, ma abbastanza tese, considerando il seguito della contesa sui confini diocesani.
 Tuttavia, per il momento, il patriarca se la cavò con un compromesso, nominando, sì, il primo vescovo, Valentiniano, ma non concedendogli tutte le parrocchie dovute. E fu così che “il distretto opitergino” venne ricostruito nuovamente e concesso al vescovo successore Massimo nel 743, e anche le terre di Revine Lago rimasero ancora sotto la diocesi di Ceneda.
 Tra il 744 e l’888 i Franchi di Carlo Magno discesero in Italia e vinsero l’ultimo re longobardo Desiderio; nel 794 Ceneda fu elevata alla dignità di Contea con il Vescovo Dolcissimo. Successivamente, nel 903, gli Ungari provenienti da Friuli scesero a devastare le nostre terre incendiando Ceneda, ma risparmiando Serravalle meglio fortificata. Il Papa chiama a combattere gli Ungari l’imperatore di Sassonia, re di Germania Ottone I, che nel 952 restituisce i feudi al Vescovo di Ceneda Sicardo.
Dopo l’anno Mille il susseguirsi dei contrasti feudatari portò all’istituzione dei Comuni nel XII secolo.
 Ceneda dopo essere passata ai Trevigiani, ai Caminesi, ai Vescovi, poi ancora ai Trevigiani e agli Scaligeri passò ai Veneziani. In questo periodo ci fu un susseguirsi di aspri eventi, tra i quali voglio ricordare solo una notizia che riguarda Revine: si tratta di una terribile scomunica, avvenuta l’11 Luglio del 1283, lanciata dal vescovo Marco da Fabiano ai conti di S. Martino Bialo e Gelo, che avevano barbaramente devastato le case ed il castello posti sul monte Frascone.
 Tarzo e Revine nel 1300 andarono a far parte della Contea Vescovile di Ceneda e mentre Tarzo rimase sotto l'egida del vescovo conte, che vi esercitava la reggenza diretta fino al 1769, avvalendosi del diritto ad un'autonoma di gestione del territorio nella contea vescovile fino al 1769, Revine manteneva la sua comunità separata da quella di Lago, che dipendeva direttamente da Serravalle, la quale, a sua volta, era sotto il controllo della Serenissima.
In questo periodo si ebbe una crescita sociale ed economica fino a quando, con il trattato di Campoformido, tutta la zona rimase sotto l'impero Asburgico e nel 1866, con la terza guerra di indipendenza, finalmente entrambi i paesi entrarono a far parte del regno d'Italia. Con il Regio Decreto n. 4453 del 14/VI/1868 si stabilì la fusione di Revine e Lago che divennero l’odierno Comune.
 Nell’ottocento, con l’organizzazione e la realizzazione dei nuovi collegamenti stradali, si ebbe una nuova crescita sociale ed economica specialmente con l’agricoltura, la viticoltura e la bachicoltura; poi con l’avvento dell’industria avvenne un primo esodo emigratorio, fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Iniziò per queste zone un periodo tra i più difficili, funestato da epidemie e miseria. Dopo il periodo fascista, si ripresentò nuovamente il fenomeno dell’emigrazione e la gente ricominciò a ripartire verso i centri dell'Italia settentrionale ed i paesi esteri.
 Successivamente, con il secondo conflitto mondiale, la lunga stagione della Resistenza, vide le montagne e le colline di questi paesi il naturale rifugio dei partigiani, in un continuo susseguirsi di scontri e rastrellamenti.

STATO DEI RUDERI DI CASTEGNA MAOR ( Tomasi 1977 – 83)

Il manufatto si presenta in stato ormai molto rovinoso; è possibile leggere con difficoltà l’assetto interno (stanze e corridoi), che risulta quasi perfettamente sovrapponibile alla pianta lasciataci da don Cumano. Si può tuttavia notare assai bene la diversità di costruzione fra l’imponente muraglia di base (quasi m 5 d’altezza), costruita con grossi massi rozzamente squadrati, e i mozziconi di muro superiore (anteriormente tardo Secenteschi), alti circa un metro e costituiti da pietrame di dimensione molto più modesta. Tale muraglia, per effetto della pressione interna, sta cominciando a muoversi, causando così anche crepe che renderanno sempre più precario il basamento. Subito a valle del muraglione sorgono alcuni piccoli contrafforti eretti con muretti a secco; tutta la china a valle è inoltre sparsa di pietre disgregatesi dall’opera in questione. Parimenti con lunghi muretti a secco sono stati ricavati alcuni gradoni (sorta di terrazzamenti) oggi semicoperti da terriccio; sono quattro, tutti ad occidente dell’edificio. Alla porta che si apre sul lato orientale arriva un piccolo sentiero che si dirama dalla sottostante Kal dai mont e prosegue poi costeggiando il lato orientale della cengia che termina al torrione. Racconti popolari diffusi in loco parlano di una cavità sottostante al pavimento, che servì da rifugio ai partigiani durante i rastrellamenti. Secondo i più anziani il luogo era un punto di riferimento per i contrabbandieri, sino al 1914: confusi ricordi di combattimenti fra Austriaci e locali saranno da riferirsi al 1848. Come si può notare in questo luogo si sovrappongono molte storie o leggende, confondendo ormai nella memoria della gente i ricordi di una generazione con quelli di un’altra. Un’accurata prospezione meriterebbe forse tutto il sistema di muri a secco e imponenti rovine di edificio a pianta semicircolare (muri di circa un metro di spessore) che si ricollegano al torrione lungo la cengia a monte, entro un raggio di circa 300 metri.


La costruzione si presenta notevolmente rimaneggiata, con continue sovrapposizioni di elementi e molteplici variazioni nell’utilizzo dei locali, con opere di demolizione e rifacimento che hanno totalmente stravolto l’impianto primitivo, rendendone molto difficile oggi una corretta lettura. Si è tentato di facilitare la comprensione degli elementi contrassegnando con segni diversi le opere murarie principali in conformità della loro antichità, basandosi sullo spessore dei muri, le iscrizioni, la presenza di opere difensive, ecc., senza tuttavia presumere un’esatta ricostruzione.
 Nella pianta vengono localizzati il bel lavamanile (seicentesco?) oggi murato sulla facciata, le varie opere difensive (feritoie, finestre da arco e spingarda), il pozzo posteriore e tutta la serie di strani archivolti (9 in tutto) che caratterizzano il maniero (altezza circa 1,70, profondità m. 1 – 1.40, larghezza circa m. 0.80) di fattura probabilmente Seicentesca. Nel cortile inoltre sono sparsi capitelli, basamenti e rocchi di colonna, grondaie in pietra (kanoi) e un po’ dovunque frammenti di pietra lavorata. Le opere murarie erano riccamente decorate all’esterno con iscrizioni (in parte perdute); a tutt’oggi si può ancora leggere (in lettere seicentesche): in alto sulla facciata, REGINA SACRATISSIMI ROSARI ORA PRO NOBIS (altezza delle lettere circa cm 60); sulla torre occidentale, S. IOSEPH ORA PRO NOBIS (altezza delle lettere circa cm 60); in C, SNDB(?)IS; in D, ANA; sulla parete posteriore del muro più antico (graffite su intonaco), originariamente in continuità, ma oggi leggibili in due diversi locali, in A: … AMPANA. CIMGA. MULLA. FARFARA. BALAMNA I..B. (altezza delle lettere cm 12 lunghezza totale m. 2,80, le lettere sono iscritte entro 2 righe parallele e sembrano presentare caratteri tardo medioevali, o cinquecenteschi), in B: COLOMBIN. FIOCHE… (altezza cm 12, lunghezza m 1). Una data era inoltre graffita sull’architrave della porta della stanzetta seminterrata della torre occidentale.
 Parimenti, degli affreschi originari rimane solo il grande S. Francesco dipinto sulla facciata (rinfrescato verso il 1940); contrastanti memorie di affreschi rappresentanti monaci o santi religiosi persistono per le stanze interne (nell’area del grande camino occidentale); la volta della stanza posteriore orientale presenta tracce dell’originario disegno (linee intersecatesi a formare rombi, di colore rosso cupo su fondo bianco); nella parte centrale della volta una pietra quadrata con foro centrale (per la corda di una campana?).
La grande scala che dalla porta occidentale della facciata conduceva al primo piano è stata abbattuta e si ha memoria solo del fatto che il primo e l’ultimo scalino portavano incisa la scritta INRI.
 Per quanto concerne i due pozzi, quello posteriore (scavato negli anni Ottanta del Seicento) presenta un invaso semicircolare (poggia con la sua corda sul muro posteriore dell’edificio), con una larghezza massima di 6 metri ed una profondità di oltre sette. Il riempimento è assicurato dalla falda posteriore del tetto (il pozzo sino a questo secolo garantiva l’approvvigionamento idrico per il bestiame). Il pozzo anteriore, con un invaso circolare (segnato sul terreno da un cordolo di ciottoli) di quasi m 4 ed una profondità di circa 12 è caratterizzato da una vera di forma piuttosto singolare (almeno nella nostra zona) e porta sul fondo un grande recipiente quadrangolare scavato in una pietra (beola), come tutti i pozzi di Revine. Il grande cortile quadrangolare anteriore, delimitato da un muretto a secco risulta già presente nel catasto del 1813 (oggi in parte rimaneggiato, mentre sino ad allora risulta che l’unica via d’accesso, fatta aprire o almeno riattare da don G.D. Cumano verso gli anni ottanta del Seicento), era una ripida stradina selciata che portava ad uno spiazzo semicircolare posteriore (sopraelevato rispetto al terreno), protetto da un muretto a secco. Una gradinata fatta scavare da don Cumano porta al sottostante oratorio di S. Francesco (diritto di passaggio da parte degli attuali proprietari). Per finire ricordiamo che la parte sovrastante la scaletta che porta alla piccola cantina seminterrata anteriore è completamente cieca (larghezza circa m 4, altezza pari al pianterreno); l’unico passaggio casuale eseguito anni or sono provocò una fuoriuscita di sabbia. Dal fondo di questa cantinetta un foro all’altezza di circa m 1.70 permette di adire al pavimento una sorta di intercapedine (altezza circa m 1.60, larghezza circa un metro) che corre nello spessore del muro che separa la parte anteriore e posteriore dell’edificio, attraversandolo completamente (un tempo) da occidente a oriente (con una diramazione nella parete più occidentale).  La torre orientava portava all’ultimo piano, sino alla prima metà di questo secolo, attraverso una grande porta che si apriva sul vuoto esterno (una bertesca?). Come in molti casi analoghi anche su questo maniero persistono alcune leggende. Una di queste narra come in qualche segreta dell’edificio sia stato sepolto uno stivale colmo di marenghi d’oro; un’altra assicura della presenza di una galleria che collega il maniero col sottostante oratorio.


UN GIORNO DI ESCURSIONE AI CASTELLI
Situazione nel 2007
 
Pochi sanno dell'antica esistenza dei tre castelli a Revine, nemmeno la maggior parte degli abitanti del posto conosce l'esistenza delle loro rovine. Rimasi incuriosito quando sentii parlare dell’esistenza delle rovine dei castelli del paese dal Signor Francesco Grava, che si occupa della distribuzione degli interprestiti all’interno del Sistema bibliotecario del Vittoriese; è nativo del posto, possiede un terreno prospiciente al Castel Maor e ne conserva la tradizione orale lasciata dagli anziani del posto.
 Deciso di approfondire la conoscenza personale delle antiche rovine e vedere ciò che restava dei castelli di Revine ci accordammo di partire per un’escursione sul posto.
 Il 6 gennaio, assieme all’Assessore alla cultura Loris Fava,  lasciammo Revine per recarci al “Pian delle femene” a q. 1140 m, chiamato così, pare, dall’abitudine delle donne che lì giungevano con la "mussa " sulle spalle, per portare da mangiare agli uomini, assieme ai sacchi vuoti che poi, riempiti di carbonelle, riportavano giù in paese per il “focolare domestico”, sempre con la "mussa", tipica di Revine.
 Successivamente con l'avvento della pastorizia e dell’agricoltura si portavano giù fieno e altri materiali.
Dal piano decidemmo di scendere lungo la mulattiera che da secoli è stata l'antica via di collegamento tra la Vallata ed il Bellunese sia per scopi militari che commerciali. Quindi un'altra via da aggiungere alle tre vie che sono ritenute erroneamente i soli unici accessi alla provincia di Belluno, cioè: la sella del Fadalto (488 m), il passo S. Boldo (707 m) ed il passo del Praderadego (910 m), attraverso il quale passava la nota strada romana militare chiamata Claudia Augusta Altinate.

La freccia rossa al centro indica il passo del Monte Frascone, una delle vie di accesso alla Valbelluna

 Tra l'altro non bisogna dimenticare che proprio a Revine sono stati ritrovati i resti di un antico tracciato stradale romano, rinvenuti presso il monte Frascone e in località Fornaci, ai piedi di questa “Via delle Musse”, o meglio “Via dei Castelli”, visto che vi sono le rovine di ben tre eremi.
 Presa la "Via delle Musse”, attraverso il sentiero 1032, nei pressi della lama che costeggia il piano, ci incamminammo presso il "Crep de la Filiga" (rondine), un pericoloso costone di roccia a strapiombo visitato da questi volatili. Infatti, nei primi 900 proprio in questo tratto di strada, mentre spingeva una delle tradizionali “musse”, un certo Grava scivolò nel precipizio perdendo la vita.

Da lì abbiamo oltrepassato località “Palon”, rimanendo al di sopra del torrente Pavei, attraversando poi la località Fossette, intravedendo qua e là gli antichi solchi sulla pietra, lasciati dall'usura delle “musse” di legno che scivolavano lungo quelle vie massicciate di pietra levigata, che erano fiancheggiate da muri a secco ed ormai nel tempo distrutte dall'incuria e dagli eventi atmosferici.

 Giunti finalmente presso i ruderi della fortificazione di Castel Maor, locato strategicamente per il controllo dei valichi tra il fondovalle e la Valbelluna, ci fermammo a fotografare quello che rimaneva delle vetuste rovine fatte risalire all'epoca bizantino-longobarda, ma probabilmente realizzate su postazioni precedenti romane.
Si notano subito le costruzioni a "castelliere", già note in tarda epoca medioevale, e consistenti in una o più strutture facenti capo, per l'appunto, ad un Castello o ad un Villaggio chiuso entro le mura o racchiuse solamente da un recinto; tali costruzioni rappresentano la prima forma tipica di insediamento umano organizzato usata anche dai Romani.
 Queste costruzioni solitamente venivano poste su un dosso o su un'altura, in posizione dominante sulla valle e, per renderle più sicuro ed inaccessibile, venivano costruiti intorno palizzate, fossati o, come in questo caso, muri a secco che servivano come fortilizio.

Dal Castel Maor discendemmo sulla strada bianca fino a quota 547 m e poi scendemmo nuovamente sul fianco sinistro del torrente, dove potei notare alcune tracce di felci fossili e dove il Signor Francesco ci fece notare una pietra con incisa una croce, riferendoci che nei primi anni del novecento proprio in quel punto, scivolando con la "mussa", morì un giovane ventenne. Scendendo ancora intravedemmo del legname da poco tagliato, Lì vicino, guarda caso, proprio una di quelle “musse” ormai rare di qualche contadino del posto che per tradizione ancora tiene viva questa usanza.

Da lì a poco mi fu indicata l’altura dove sorgeva una fortezza minore chiamata “Salt del Casin” che sorgeva per l’appunto sul “Prà de Casin”; sempre uno dei punti strategici da dove si poteva vedere tutta la vallata.

 Anche lì, dopo un sopralluogo è stato possibile constatare  solo alcune rovine all’interno di una cinta circolare ed una struttura costruita successivamente al centro ormai diroccata anch’essa.

Passato il capitello della Madonna dei “Pradamont”, raggiungemmo finalmente l'altura sulla quale sorgeva l'antico Castello del monte Frascon, anch'esso di probabile origine romana e obiettivo delle guerre bizantino-longobarde, distrutto alla fine del XII secolo e poi sommariamente ricostruito.

 Da lì, dopo aver scattato alcune foto e fiancheggiando il torrente Pavei, giungemmo al santuario di S. Francesco da Paola con la sua particolare Via Crucis, risalente al tardo Seicento e posto a quota 335 m.

In questo dipinto è visibile il santuario di S. Francesco da Paola ed al centro il Castello del M. Frascon (Tarzariol Lucio olio su tela 60x70 - 2007)

FORTEZZE ROMANE
Le opere di difesa romane consistevano generalmente in cinte murarie o terrapieni con vallo ligneo, realizzate prevalentemente sui punti più elevati del terreno e talvolta arricchite, all’esterno del perimetro murario, con una seconda scarpata di terra di riporto, preceduta a sua volta da un lungo ed ampio fossato.
 La fortificazione con i Romani raggiunge il più alto livello tecnico ed architettonico del mondo antico; infatti, già intorno al VII secolo a. C. si evidenziano varie soluzioni tecniche chiare giungendo storicamente al noto "castrum", che la storiografia recente ritiene di caratteristiche molto più complesse.
  Dai primi semplici esempi legati ad un approccio bellico offensivo più che difensivo, si passa, nell’arco di circa due secoli, a costruzioni più grandi e stabili, indotte dalla necessità di difesa e permanenza, realizzate in pietra e in un modo che deriva dalle civiltà greca, etrusca e fenicia.
 Infatti i Romani, dopo aver scelto accuratamente la posizione tattica, procedevano alla costruzione di una recinzione del terreno, poi alla realizzazione di un sistema di torri alte, al fine di riuscire ad avvistare anticipatamente il nemico, ed inoltre costruivano mura rettilinee, con alcune alture verso il campo nemico e unite tra loro così da difendersi principalmente dal tiro frontale degli arcieri.
 La disposizione delle torri dominanti la cortina muraria era prevalentemente ravvicinata. La torre interna, generalmente sulla porta o le molte a filo di cortina, appartengono alle prime tipologie costruttive che dovevano permettere ai soldati di difendere le mura; per cui il castrum aveva sempre molte uscite, mentre nei tratti morfologicamente più fragili si aumentavano le difese, limitandole nelle zone naturalmente più protette.
 Le porte d'entrata erano predisposte in modo tale da costringere il nemico a costeggiare, sottotiro; oppure erano direttamente aperte verso i nemici con la disposizione ad uno o più fornici fiancheggiati da doppie torri sporgenti di varia forma, o predisposte in altre maniere, mentre i fornici erano chiusi da apposite porte, "cataracta" solitamente rivestite di ferro e regolate da rulli e funi rivestite di cuoio.
 Con il tempo, le diverse esigenze e la discesa dei barbari, la difesa si trasforma nelle città fortificate Medioevali, con i relativi capisaldi che poi, collegati tra loro, daranno vita ad un unico sistema difensivo con fortificazioni distribuite su tutto il territorio.
 Per farsi un'idea della tipologia costruttiva basti vedere le rappresentazioni raffigurate nella colonna traiana che è composta di 200 metri di rilievi e ben 114 formelle, che costituiscono un ininterrotto fregio a spirale; essa fu inaugurata nel 113 d.C. per commemorare le campagne vittoriose dell’imperatore Traiano in Dacia nel 102-104 e 105 -106.

FORTEZZE LONGOBARDE

I Longobardi dall'originaria terra danese giunsero prima verso l'Europa e poi nella nostra Penisola. In bande sparse di guerrieri, prendono parte a razzie, saccheggi e scontri sia con i Bizantini che con i Franchi. Da qui, a partire dal VI secolo, il bisogno di strutture difensive per difendere il proprio dominio dall'attacco dei Bizantini, ai quali avevano sottratto gran parte dei territori, e dalle incursioni di altre popolazioni intenzionate a conquistare la Penisola da più fronti.
 I Longobardi si insediarono nelle città ma anche nei castra, ovvero villaggi fortificati, dove vi erano dei funzionari chiamati “sculdasci e gastaldi”. Le costruzioni generalmente sono il riadattamento delle preesistenti e vengono affidate a maestranze locali, le quali sono libere di realizzarli secondo i propri canoni tradizionali che non necessitano di un incastellamento.
 Vengono, quindi, commissionati tutti i tipi di lavori edili, suddivisi generalmente in dieci precise categorie di opere con retribuzione sulla base di un corrispettivo che non tiene conto della tipologia costruttiva né edilizia, ma solo delle dimensioni (calcolate in "tegole", da 42 x 55 cm a 41 x 61 cm) e della destinazione d’uso della costruzione.
 Dall'analisi di tali generi di lavoro retribuiti a magistri comancini e magistri murarum si ricava, quindi, che i Longobardi utilizzano coperture voltate o piane in legno; murature realizzate con conci squadrati o di grandi dimensioni o con conci piccoli o irregolari; raramente le superfici vengono intonacate.



L'Autore Lucio Tarzariol nel suo dipinto in copertina del libro ha voluto ricostruire quella che poteva essere la Revine dei primi secoli dopo Cristo. Si vedono le tre fortezze sul passo del Frascon, quella più grande del “Castel Maor”, appena sotto “Salt del Casin” e più in basso il Castello del M. Frascon.
 Si vedono alcuni soldati romani a Cavallo che attraversano la strada romana che un tempo attraversava la piana di Revine e si dirigono verso “Magnader”, l’attuale  Loc. S. Marco presso il Col de la Spina, che fu già stazione di cambio e probabile posto di ristoro anche in epoca romana; non a caso oltre ai resti delle tre fortezze, il rinvenimento dei tre tratti dell’antica strada  rinvenuti sul monte Frascone, alle fornaci, dove fu trovata anche una lapide militaria e in Località Selve, mi fanno pensare ad un’antica Via che portava alla Valbelluna che andava snodandosi proprio in Loc. “Magnader”. Sii può notare nel dipinto che la strada poi si divide restringendosi verso il M. Frascon da un lato e dall’altro lato continua verso Vittorio Veneto dove per l’appunto furono trovate molte lapidi romane ed alcuni cippi.
 Infatti proprio negli scavi della ferrovia nel 1879, ai Zambòn, si trovò un tracciato di strada romana ed anche una pietra che servì di muratura sepolcrale, con epigrafe dell’imperatore Claudio e con addirittura  la distanza da Roma.
 Solitamente le strade romane erano larghe circa 4 - 5 metri e partivano tutte da Roma da un luogo del Foro in cui era infissa una colonna di bronzo dorato su cui erano incise le varie distanze, calcolate da quel punto al limite estremo di ogni strada; queste strade generalmente erano costruite con uno strato più profondo (statumen) di sassi e argilla; un secondo strato (rudus) fatto di pietre, mattoni rotti, sabbia, tutti impastati con calce; un terzo strato (nucleus) di pietrisco e ghisa; una copertura (summum dorsum) di lastre levigate di pietra che combaciavano le une sulle altre appoggiate sul nucleus. Al lato di ogni strada romana erano infisse ogni miglio, cioè 1400 metri, grandi pietre alte più di due metri, i cippi, su cui erano incisi i relativi dati, in genere la distanza da quel punto a Roma ed il nome di chi aveva progettato la strada.
 In tutte le strade esistevano a distanza di circa venti chilometri l’uno dall’altro “posti di tappa” (statium), dove si poteva cambiare o ristorare cavalli, muli, buoi e dove era possibile riparare i carri; inoltre molte erano anche, le osterie, le locande, quasi tutte però pericolose, malfamate, frequentate da ladri e briganti.



La leggenda vuole che il primo abitato di Revine, “Magnader”, che per l’appunto ci ricorda un posto dove si mangia sia stato distrutto da una frana; ed osservando la montagna nella foto aerea sopra riportata, nella zona circoscritta in rosso, si può notare chiaramente un ampio incavo con una ripida parete che sembra spaccata, probabilmente una frana avvenuta in antico tempo, come afferma la leggenda. La stessa vegetazione sembra impadronirsi nuovamente dei tratti di terreno, ghiaia e della nuda roccia scoscesa: tale aspetto è visibile fin dal fondovalle.
  Appare evidente che l'evento franoso si sia verificato, molto probabilmente, nel terremoto del 365, quando pare sia precipitato anche il Monte Soccher a Ponte nelle Alpi, ma non è da escludersi completamente la possibilità che l'evento sia avvenuto in epoche successive, visto che altri terremoti si ebbero anche nei dintorni nel 1451, nel 1485, nel 1511 e nel 1756, in quest’ultimo caso con epicentro proprio Ceneda.
 Si può notare a vista d'occhio ciò che rimane dello smottamento del terreno, proprio lì, in Loc. S. Marco, l'antica e leggendaria località chiamata un tempo “Magnader”, il vetusto paese sulle quali rovine sarebbe poi nata l'attuale Revine.





SENTIERI DA FARE



990
Pian de le Femene - La Posa - Alle Buse
Il facile percorso di 2,9 km parte dal Pian delle Femene (1140 mt) e si avvia verso una valle ricca di detriti selciosi dovuti all'alterazione del biancone, roccia calcarea che si frantuma facilmente con il gelo. Si prosegue per Saler e poi per Pian di Frassene'. A quota 1086, presso la sella, il percorso si incrocia con numerosi sentieri. Se si vuole seguire quest'itinerario si continua per località Posa, poi per le Buse e si prosegue per la baita "da Nino" (1114 mt), zona di decollo per il volo libero. Lungo il percorso si possono scorgere numerose casere che hanno anche provveduto alla raccolta dell'acqua piovana dal sottosuolo.
1032
Via dei Mont (o Strada delle Musse) "Via dei Castelli"
Il sentiero non è facile, ha una lunghezza di circa 3,6 km con un dislivello di 805 mt. Si parte costeggiando il torrente Pavei, si prosegue per mulattiera verso un’altura dove sorgeva il vecchio Castello di Monte Frascon e sono ancora visibili i segni lasciati dalle "musse". Si prosegue verso i due fienili Frare. Si notano biancone (roccia calcarea), boschi di castagno, casere, una vecchia teleferica e le rovine del Castel Maior. Si sale fino a Casere Forcelle passando loc. Fossette e il torrente Pavei. Si continua lungo i prati e si raggiunge la lama sottostante la strada ed il rif. di Pian de le Femene ( 1140 mt).
1033
Strada dei Cavai
Questo sentiero facile, lungo 7 km con un dislivello di 892 mt, parte da Revine e si dirige verso il santuario di S. Francesco da Paola e verso la località Bareda, per percorrere una mulattiera tra muri a secco (da notare un capitello costruito su una morena) che interseca il sentiero per raggiungere il Pian delle Femene. Si prosegue per il vallone dei "borai" verso le casere e verso località Col de Pel - Madonna della Neve. Si continua verso la provinciale. A quota 770 mt si trovano degli scalini in pietra per raggiungere, a quota 910 mt, la casera dei Carli in località Val Storta, si continua fino alle casere Bernardie Francescon (1030 mt),  da dove si imbocca il sentiero per il Pian delle Femene. All'inizio il percorso è composto da detriti e dalle vallette incise nella roccia dal torrente Pavei. Lungo il percorso in loc. Casere Baruzzole si trovano delle cavità naturali (grotta nuova), date dal fenomeno carsico.
1034A
Sentieri di Lago di Sotto
Il facile percorso di 1,6 km parte dalla piazza di Lago, a quota 235 mt, e prosegue per la Caiada sul crinale della montagna sovrastante il paese. Si possono scorgere i ruderi di Villa Caroli e la stele a ricordo di un partigiano ucciso dai nazisti. Proseguendo si trova il ponte costruito con le rotaie della ferrovia usata dagli austriaci nella Grande Guerra. Si prosegue per la località Laste del Col, a 370 mt di quota, e verso le casere Gasperon e Via S. Giorgio. Qui si incrocia la Cal Vecia, antica strada che univa Vittorio Veneto con i paesetti della vallata.
1034B
Sentieri di Lago di Sopra
Il percorso di facile approccio parte da S. Giorgio e scende attraverso l’antica via che dalla piazza portava al Lago. Si arriva sul “Va' de Piazza” (q. 224 mt) da cui parte il sentiero che costeggia il lago, giungendo alla foce del Piaveson, zona di possibile sosta e riposo, dal quale è possibile risalire alla strada provinciale costeggiando un torrentello. Da qui o si prosegue verso Santa Maria per trovare un antico borgo o si ritorna a Lago per sostare nelle aree verdi.
1035
Antica Via Maestra
Il facile percorso di 10 km parte da Longhere (q. 188 mt), e prosegue per la località Col de Spina, dalla quale si vede una cava con strati rocciosi e fratturati, dove passa la faglia di Longhere. Si prosegue per S. Marco e, a quota 259, s'imbocca la vecchia strada maestra, che corre lungo il fianco della vallata, poi si scende e si entra nella borgata di S. Maria e di S. Martin per proseguire in quota fino all'incrocio con la strada che porta a Pala Briccon. Da qui si raggiunge il centro di Lago, raggiungendo poi località Caiada e località di Soracol q. 260.  Si arriva alla borgata di Sottocroda (255 mt) e si passa il torrente Pioveson per arrivare alla Chiesetta di S. Giustina, che domina la borgata di Soller. Si prosegue verso la Chiesetta di S. Nicolò. L'itinerario si conclude alla pittoresca piazzetta di Tovena. Il percorso era la via che una volta congiungeva i vari paesetti, e si trova ad una quota più elevata rispetto all’attuale strada provinciale. Il motivo è che probabilmente la zona inferiore era paludosa e inaccessibile.
Da Serravalle di Vittorio Veneto al sentiero 1052 loc."Le Selve"
Il percorso offre squarci panoramici molto interessanti del vittoriese e, proseguendo, dei sottostanti laghi e dei paesi di Lago, Santa Maria e Revine. Giungendo attraverso l'Alta Via, che corre lungo il crinale della Costa di Serravalle, si giunge ai ruderi di una antica fortezza, che la credenza popolare attribuisce a Re Matruc, re longobardo e padre della santa venerata a Serravalle. Più sotto, invece, rimane il santuario di Santa Augusta, con l’annesso vecchio convento, ora trasformato in osteria.
La via selciata e la grande scala ci portano a Piazza Flaminio a Serravalle. Seguendo la "via dei sassi", ora via Roma, si sale verso Sangusè, fiancheggiando i resti del sistema difensivo della città: un doppio cordone di mura intervallato da torri di avvistamento. Dalla borgata rurale si prende per una carrareccia che tra coltivi e boschi di castagno porta in località "Le Selve", in comune di Revine Lago. Da lì si prende il sentiero 1052 (298 mt) nella zona a valle del Monte Baldo, denominata "Le Prese". Si prosegue lungo la strada per Revine per arrivare alle fornaci Tomasi (240 mt), dove anni fa vennero alla luce un centinaio di tronchi fossili, tutti in posizione di crescita. Appartengono alla specie Larix decidua (Larice europeo) e presentano un diametro variabile da 25 a 70 centimetri. Una successiva datazione al radiocarbonio ha rilevato un'età di circa 15.000 anni. Si svolta a sinistra al primo incrocio, mentre al successivo si prende la strada sulla destra che conduce al Bar Riviera. Continuando lungo la riva del lago di S. Maria fino al centro di Colmaggiore s'incontra un tratto di sentiero sulla riva del Lago di Lago. Giunti al Borgo di Fratta si percorre il canale detto Tajada che dà origine al fiume Soligo. A Soller si incrocia una strada sterrata che in salita conduce alle Case Teson, dove termina l’itinerario.

ELENCO DELLE CAVITÀ PRESENTI NEL TERRITORIO
Bus della Cava
Long 0° 15’ 12’’ O Lat 45° 59’ 26’’N
Quota d’ingresso: 450 m s.l.m.
Profondità 8 m, sviluppo in proiezione 20 m
L’ingresso di questa cavità si trova ad ovest della Casera della Cava
Bus del Boral
Long 0° 14’ 30’’ O Lat 46° 00’ 31’’ N
Quota d’ingresso: 1150 m s.l.m.
Profondità 38 m, sviluppo in proiezione 10 m
Si trova sul fianco est del M. Boral, lungo una cresta che dalla cima del monte scende verso la Val Negra
Sperlonga di Santa Maria
Long 0° 14’ 50’’ O Lat 46° 00’ 18’’ N
Quota d’ingresso: 1095 m s.l.m.
Profondità 20 m, sviluppo in proiezione 10 m
Si trova sul versante destro della Vallata alla base di una paretina a sud ovest di Casera Lovere
Bus del Late presso q. 913
Long 0° 12’ 17’’ O Lat 46° 01’ 00’’ N
Quota d’ingresso: 913 m s.l.m.
Profondità 16 m, sviluppo in proiezione 26 m
Si trova lungo il sentiero che porta dal Col del Pel al Pian delle Vacche
Landro presso Casere Baruzzole
Long 0° 11’ 44’’ O Lat 46° 00’ 31’’ N
Quota d’ingresso: 655 m s.l.m.
Profondità 8 m, sviluppo in proiezione 28 m
Si trova lungo il sentiero che dalla lama quotata m 642 porta alle Casere Baruzzole
Bus della Casamatta
Long 0° 11’ 22’’ O Lat 46° 00’ 36’’ N
Quota d’ingresso: 615 m s.l.m.
Profondità - m, sviluppo in proiezione 10 m
Si trova a c.a 300 m a nord est del landro di Casera Baruzzole
Bus dei Morti
Long 0° 14’ 54’’ O Lat 45° 59’ 37’’ N
Quota d’ingresso: 493 m s.l.m.
Profondità 7 m, sviluppo in proiezione 10 m
Si trova nei pressi di una baita situata lungo il sentiero che dal cimitero di Lago sale verso la Casera della Cava
Bus degli Archeologi
Long 0° 14’ 58’’ O Lat 45° 59’ 12’’ N
Quota d’ingresso: 380 m s.l.m.
Profondità 8 m
A c.a 400 m dall’oratorio di Sottocroda
Pozzetto del Torrente Pavei
Long 0° 14’ 57’’ O Lat 46° 00’ 35’’ N
Quota d’ingresso: 760 m s.l.m.
Profondità 9 m
Si apre sul lato sinistro del vallone omonimo scendendo dalla dorsale prealpina
Landro sotto Pian dei Grassi
Long 0° 11’ 26’’ O Lat 46° 01’ 18’’ N
Quota d’ingresso: 849 m s.l.m.
Sviluppo in proiezione 15 m
Si trova nelle vicinanze di Casera Frare, a metà del canalone che scende dal Pian dei Grassi
Grotta nuova a sud-ovest di Casere Baruzzole
Long 0° 11’ 46’’ O Lat 46° 00’ 31’’ N
Quota d’ingresso: 642 m s.l.m.
Profondità 18 m Sviluppo in proiezione 21 m
Si trova sul lato sinistro della strada per il Col Visentin, a c.a 200 m dalla Casera Baruzzole
Sperlonga sora le Casere Coste
Long 0° 16’ 03’’ O Lat 46° 00’ 24’’ N
Quota d’ingresso: 1100 m s.l.m.
Profondità 23 m Sviluppo in proiezione 19 m
Si trova lungo il versante sud  del Monte Cimone, nei pressi delle Casere Coste
Grotta Bella
Long 0° 14’ 55’’ O Lat 45° 14’ 28’’ N
Quota d’ingresso: 610 m s.l.m.
Profondità 9 m Sviluppo in proiezione 20 m
Seguendo il sentiero che parte dalla baita sotto la casera della Cava a quota 493 m e dirigendosi a nord est, dopo c.a 200 m si attraversa un vallone, risalendo il quale, sulla sinistra si nota l’ingresso della cavità.
Landro del Rù
Long 0° 12’ 00’’ O Lat 46° 00’ 33’’ N
Quota d’ingresso: 550 m s.l.m.
Profondità 10 m Sviluppo in proiezione 24 m
        Si trova a c.a 500 m a ovest di casere Baruzzole
Grotta del Pian de Saler
       “Sperlonga sul Valon”,  sotto le case di Tomio Rico
Quota d’ingresso: circa 800 m s.l.m.
Landro ai Pecoi
Vicino il torrente Pavei
Quota d’ingresso: circa 850 m s.l.m.





CRONACHE DEL PAESE

L’ armistizio

In seguito alla disfatta di Caporetto anche Revine Lago venne occupata dai soldati austriaci nel novembre del 1917, e dall’estate del 1918 alla fine della guerra il paese fu teatro di violenti scontri con il nemico, che iniziarono nel territorio di Lago e terminarono a Revine in località Col della Spina. Il 4 novembre 1918 la guerra cessa, e anche a Revine si decide di firmare un armistizio col nemico; per l’occasione fu costruito un palco in località Pian del Pos, munito di finti cannoni di legno di gelso.

Ferrovia
Durante l’occupazione del 1918 venne costruita una teleferica a doppio filo portante che dal castello di Serravalle arrivava ai Con (frazione di Serravalle) e da qui al Masieron (sul confine di Serravalle), poi a borgo Bridòt, e infine alle lame dove si trovava una piccola stazione. Da qui partiva una ferrovia a scartamento ridotto che trasportava rifornimenti fino all’aeroporto militare di Cison. Durante la ritirata i tedeschi affondarono il treno nel lago, dove, secondo le “voci di paese” si trova tuttora.

Incendi
 Tra l’autunno e l’inverno del 1944 i tedeschi invasero Revine e appiccarono numerosi incendi nel paese, colpendo le fornaci, via maestra, e le case dietro la chiesa di San Matteo. L’obiettivo era quello di colpire le abitazioni dei partigiani (che erano segnate con una croce dei fascisti) e di chi li sosteneva, ma spesso venivano incendiate anche case di civili non coinvolti con i partigiani.
 In seguito agli incendi un’ordinanza comunale impose di ospitare chi aveva perduto la propria abitazione. La ricostruzione delle case bruciate incominciò nella primavera dell’anno seguente.

DIVERTIMENTI E PASSATEMPI

Sgezola

Nei freddi giorni invernali uno dei giochi più divertenti era la corsa con la slitta. Dopo il filò, gli uomini si occupavano di bagnare alcune strade in modo che durante la notte si ghiacciassero e la mattina dopo bambini e ragazzi potessero correre con la slitta lungo le piste, dette appunto sgezole. Alcune strade in cui si praticava la sgezola erano:

da Pont de Mel a Pian del Pos
dalla Croseretta alla Via Maestra
“gara col salt” dalla Piazza per tutta la Cal de Denever

Stampi per i salami

Quando veniva il norcino a uccidere il maiale era un giorno di festa, ed era anche l’occasione per giocare qualche scherzo ai ragazzini. Gli adulti, dopo l’uccisione del maiale, mandavano i bambini con la gerla a prendere gli stampi per il salame da qualche conoscente e i contadini che li vedevano arrivare, alla richiesta degli stampi per i salami, li riempivano (a loro insaputa) con sassi che il malcapitato portava fino a casa! I più generosi oltre ai sassi mettevano anche un po’ di frutta o cibarie varie... Comunque gli stampi per i salami era solo una delle versioni del gioco; infatti, si potevano mandare anche a prendere “tondin quadri” o altri oggetti assurdi.

VITA QUOTIDIANA

Filò

Durante i lunghi mesi che precedevano e seguivano l’estate, le famiglie di Revine, (ma era usanza di molti paesi contadini), si riunivano al filò.
Il filò era un momento di ritrovo che aveva luogo nelle stalle più capienti, che grazie al calore emanato dagli animali erano le stanze più accoglienti nei mesi freddi. Lo spazio libero veniva ripartito in 2 parti, una per gli uomini, dediti a lavori manuali e a giochi di carte, e una per le donne, dedite invece al cucito, alla realizzazione di scarpet (rustiche pantofole in fustagno e feltro) ecc. Prima di iniziare il capofamiglia recitava il rosario. Il filò non era solo un momento di lavoro in compagnia, ma anche di socializzazione, nel quale i componenti delle varie famiglie si ritrovavano e si raccontavano le novità del giorno. Si scherzava, si narravano storie ai bambini, si mangiava e si beveva il vin Pizzol (il vino mescolato ad acqua) perché quello buono era riservato all’estate, stagione di lavoro. Inoltre, era questo un luogo d’incontro per i giovani in età da matrimonio.
Durante i filò si intrattenevano i bambini con fiabe e leggende,  che spesso contenevano personaggi magici come il Matharol che, secondo alcune versioni, accudiva il bestiame durante la notte in cambio di latte e polenta e, secondo altre si divertiva a liberare gli animali facendoli scappare dal recinto; un'altra figura fiabesca era Redosega, una strega che portava malattie e miseria.
Per allontanare le streghe (e quindi anche malattie e miseria) si usava mettere una scopa di traverso sull’uscio oppure bruciare il suo fantoccio sopra il panevin la notte del 5 gennaio.

Le lame
“Le Lame” (Tarzariol Lucio 60x70 olio su tela - 2006)

Il lavatoio di epoca ottocentesca era il luogo in cui le donne si trovavano per fare il bucato e per attingere l'acqua per l’uso domestico, che veniva trasportata tramite i seci (recipienti) che venivano caricati sulle spalle su un’asse curvo detto bigol. Il sabato, invece, toccava alle ragazze scendere alle lame per lavare il rame, cioè le pentole e gli utensili per la cucina. Oltre a ciò, i lavatoi fungevano anche da ritrovo e luogo di socializzazione.

L’alimentazione

I piatti tipici erano polenta, fagioli, radici, e in autunno si raccoglievano castagne che, oltre a servire all’alimentazione, venivano anche barattate con la biava delle basse.
Nel periodo scolastico il medico che visitava gli alunni usava somministrare dell’olio di merluzzo ai bambini più malaticci per rinforzare le ossa.

campo solare

Era il grest di una volta. Nel mese di luglio i bambini di Revine e di Lago (che venivano qui a piedi) si ritrovavano nella piazza (la vecchia scuola) e passavano le giornate insieme giocando, imparando nuovi canti ecc.
La giornata al campo solare cominciava con la colazione e durava fino al tardo pomeriggio presso la casa del fascio.

CULTURA

Lo sapevi che …?

Per Revine passa il parallelo 46°00’00’ contrassegnato con una targhetta in Piazza Revine.
Nel 1913 e nel 1923 sul piazzale della chiesa di San Matteo veniva raffigurata la guerra di Libia, con gli Arabi arroccati sulla riva e i bersaglieri italiani provenienti dal mare; i cannoni erano fatti con tronchi di gelso, le divise cucite in casa.
Negli anni venti don Antonio Missaglia fondò una compagnia teatrale maschile.
In località Borgo Bridot è possibile ammirare degli affreschi seicenteschi realizzati sulle mura di una stalla.
Nei primi anni venti venne aperto un cinema a Revine, che però dovette chiudere nel giro di pochi anni per le difficoltà di gestione.
Il vecchio asilo era intitolato al "buon pastore", così chiamato perché finanziato dal generale pastore.
Prima della nascita del comune Lago era sotto il controllo di Serravalle, Revine sotto quello di Ceneda.
Nel 1818 nascono il comune di Lago e il comune di Revine, poi, in seguito all’annessione al Regno d’Italia, il regio decreto nr. 4453 del 14/6/1868 li unificò.
In località San Marco, chiamata anticamente "Magnader", sorgeva una piccola stazione di cambio dove le carrozze potevano fermarsi per far riposare i cavalli, o anche sostituirli.
Anni fa vennero alla luce vicino al Lago di S. Maria un centinaio di tronchi fossili, appartenenti alla specie larix decidua (larice europeo); la datazione al radiocarbonio ha rilevato un'età di circa 15.000 anni. A quei tempi esisteva un unico grande lago, che da Serravalle raggiungeva la morena di Gai e dal quale derivarono 3 bacini lacustri, ora ridotti a due
SINTESI STORICA DI  REVINE LAGO
XII - X sec. a.C. Insediamento del popolo Veneto fra il Livenza e il Piave

Dal II sec a.C. - V Sec d.C. Presenza di Roma nel territorio.
Costruzione della strada Claudia Augusta Altinate; iniziata dal generale Druso e completata dal figlio Claudio nel 46 d.C. e, presumibilmente, costruzione delle fortezze di Monte Frascon, Salt del Casin e Castegna Maor.
 Il territorio di Revine viene assegnato all’“Agro Opitergino” dall’imperatore Augusto nel 43 a.C.
Formazione della lingua romano-cenedese, dei toponimi e della toponomastica locale.
Predicazione del Vangelo
313 Editto di Costantino che riconosce la libertà di culto anche per i Cristiani.
365 Uno dei terremoti più disastrosi con epicentro sulle montagne vittoriesi. Precipita il Monte Soccher a Ponte nelle Alpi.
II- III°sec. d.C. Si intensificano le invasioni di gente dal nord e dall’est; vengono riorganizzati gli assetti difensivi dell’impero. Leutari re dei Franchi regna e muore in Ceneda (555 secondo Agathias in de bello Gothorum).
4 76 Caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Formazione dei Regni Romano-Barbarbarici all’interno di quello che era stato territorio imperiale. In Italia si forma il Regno Ostrogoto.
535-553 Guerra Greco-Gotica. L’Impero Romano d’Oriente cerca di riconquistare l’Italia, Treviso è sede di Totila, generale ostrogoto. Nonostante la vittoria imperiale vi è crisi e miseria. Restano le piazzeforti gote e intanto arrivano anche i Franchi.
568 Invasione dei Longobardi e loro insediamento in tutto il territorio in fare e ducati.
- Adattamento delle fortezze di Revine da parte dei Longobardi.
- Scambio di culture e arricchimento della toponomastica locale con elementi barbarici.
665 Distruzione della Diocesi di Oderzo, che favorisce la nascita della diocesi di Ceneda e diviene sede del Ducato Cenedese che si estendeva dal Piave al Livenza, occupando anche il territorio di Revine.
774 Carlo Magno scende in Italia e sconfigge il Re dei Longobardi, rimangono in vita alcuni ducati tra cui quello friulano.
800 Carlo Magno incoronato imperatore dal Papa.  Riorganizzazione territoriale, ai ducati si sostituiscono comitati e marche.
IX Periodo di crisi per Ceneda il cui comitato fatica ad emergere si evolve in contea, territorio a carattere locale e patrimoniale del vescovo-conte Sicario grazie privilegi dell’imperatore Ottone I.
X Gli Ungari invadono le nostre zone, incendiano Ceneda risparmiando Serravalle.
Metà XI sec. Istituzione dei Comuni: la popolazione cerca di affermare la propria autonomia sulle città.
Fine XII Nei territori limitrofi tra le famiglie signorili emergono i Da Camino, i cui feudi provengono da donazioni imperiali, patriarcali e vescovili.
1154 Matrimonio tra Sofia da Collalto e Guecellone Da Camino, unione delle due famiglie più potenti della zona.
1170 Sofia da Camino dona ai monaci dell’Abbazia di Follina varie chiese tra cui quella di Santa Maria di Lago.
1193 Lago entra a far parte della Curia di Serravalle di proprietà caminese.
1233 Divisione della famiglia da Camino: Caminesi di Sotto nel basso opitergino e Caminesi di Sopra con Treviso, Serravalle e il loro circondario.
1261 Prima notizia indiretta nella divisione tra i beni fra Guecellone e Biiaquino di una villa S.ti Martini.
1280 Tentativo di distruzione del Castello di Monte Frascon ad opera dei conti di San Martino di Ceneda.
1300 Revine entra a far parte della contea vescovile di Ceneda.
1314 La regola di Lago è chiamata di San Giorgio, probabilmente San Giorgio era il più importante dei villaggi fra i tre della regola di Lago. La regola di Revine fa parte della Pieve di Serravalle.
1335 Morte di Rizzardo V da Camino, ultimo discendente maschio della famiglia dei Caminesi di Sopra; inizio diatribe tra Vescovo di Ceneda, Caminesi di Sotto e Scaligeri.
1337 I domini dei caminesi di sopra tornano nelle mani del vescovo di Ceneda che ne dà l’investitura ai procuratori di San Marco, la Serenissima ottiene il suo primo dominio nell’entroterra e nomina subito un podestà. Lago rientra insieme a Serravalle sotto dominio veneziano fino al 1767, Revine resta sotto diretta amministrazione del Vescovo di Ceneda fino al 1768.
1348 Uno dei più grandi terremoti che colpirono la zona. La grande peste che colpi tutta 1’Europa e spopolò quasi completamente anche la zona.
1392 Altra notizia su S.ti Martini, indicato come monastero fra i confinanti della Chiesa di S. Maria di Lago.
XV Devastazione del territorio prima da parte degli Ungari, poi da parte delle milizie imperiali tedesche e alcune personalità italiane (1508 lega di Cambrai) nella lotta contro Venezia.
1511 Terremoto con epicentro fra il Meschio e il Meduna.
1518 Nella guerra della "Lega" contro Venezia, tutto il territorio viene sottoposto a razzie e distruzioni.
1537 Revine diventa parrocchia
1615 - 1617 Guerra di Gardisca, Veneziani contro l’Impero asburgico.
1653 - 1667 Nella mappa di Lago, San Marino è segnalato come rudere.
1677 - 1702 Viene edificato il santuario di San Francesco da Paola per volere del parroco Giovanni Domenico Cumano.
1692 Acquisto del parroco del Castello di Monte Fiascone.
1756 Terremoto con epicentro nel Cenedese.
1797 - 98 Caduta della repubblica di Venezia.  Il trattato di Campoformio fra Napoleone e l'Austria segna l'inizio della dominazione austriaca nel Veneto.
- Passaggio di truppe austriache e francesi.
- Requisizioni in tutte le case - spogliazione delle chiese dei beni, dei preziosi e delle opere d’arte.
1818 Revine viene riconosciuto come comune.
1848 L’intera zona si ribella agli austriaci i quali si ritirano da tutto il Cenedese.
1849 Dopo la caduta di Venezia gli austriaci ritornano e riprendono tutta la zona.
- Per castigo, il Cenedese e il Serravallese vengono privati della direzione amministrativa del loro territorio e aggregati alla nuova provincia di Treviso.
1866 Tutto il Veneto passa sotto il regno d’Italia.  Serravalle e Ceneda formano l’unico comune col nome di Vittorio in onore a Vittorio Emanuele II.
1868 Il decreto regio n. 4453 del 14/06/1868 stabilisce che Revine e Lago si uniscano in un solo comune.
1873 Forte terremoto con epicentro nella pedemontana cenedese.
1914-1918 Iª Guerra Mondiale. L'Italia entra in guerra nel 1915.
1917 Revine viene occupata dall’esercito austriaco in seguito alla disfatta di Caporetto.
1918 Battaglie contro l’invasore che terminano poi con la firma dell’armistizio (sulla falsa riga di quello di Villa Giusti ne viene firmato uno anche a Revine in loc. Pian del Pos).
1939-1945 IIª Guerra Mondiale. L'Italia entra in guerra nel 1940.
1939 Il 13 Maggio la diocesi di Ceneda venne chiamata Diocesi di Vittorio Veneto.
1944 Revine viene occupata dai tedeschi che nel mese di settembre appiccano degli incendi nel paese per rappresaglia contro i partigiani.
1945 Il 25 Aprile l'Italia viene liberata dall'occupazione dei nazisti e dei fascisti grazie all'intervento di partigiani e delle truppe anglo-americane.



Partendo da destra il Signor Francesco Grava, L’Assessore alla cultura, Loris Fava e il Bibliotecario Lucio Tarzariol nei pressi delle rovine di Castegna Maor

Io vorrei concludere questo libro con le stesse parole che Basilio Sartori nel suo libro “La Valle Lapisina, tra storia e leggenda” scrisse per la torre di San Floriano, rivolgendole in questo caso ai castelli di Revine e, soprattutto, al Castel Maor. Infatti, se non si fa qualcosa e anche subito, non solo si corre il rischio di perdere un’importante testimonianza di cultura e di storia, ma c’è anche il pericolo per l’incolumità delle persone che si recano a visitare le rovine del castello (conosciuto anche all’estero).
Sarebbe anche bello se, una volta pulite e restaurate, le rovine venissero illuminate, diventando ancor più motivo di richiamo per Revine.

Lucio Tarzariol




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Si ringrazia la Regione Veneto, i collaboratori del Comune di Revine Lago, la Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane e la Banca di Credito Cooperativo delle Prealpi



Finito di stampare nel mese di Novembre 2007
Associazione Immagine Giovani (Sarmede)